Patto di prova in forma scritta, con mansioni chiaramente individuate e possibilità di recedere per ambedue le parti, senza obblighi di preavviso e delle relative indennità.
Sono le caratteristiche del patto di prova, che può essere apposto anche al contratto a tutele crescenti, ossia al contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato stipulato dopo il 7 marzo 2015 (data di entrata in vigore del D.Lgs. 23/2015).
Restano validi, infatti, anche dopo la riforma, i principi e i limiti stabiliti dalla legge ed elaborati dalla giurisprudenza sul periodo di prova.
Vediamo quali sono le indicazioni da seguire.
In base all’articolo 2096 del Codice civile, può essere apposto anche al contratto a tutele crescenti un periodo di prova, la cui durata è dettata essenzialmente dalla contrattazione collettiva o dalla legge.
Il patto deve essere stipulato per iscritto contemporaneamente alla stipula del contratto di lavoro e comunque prima dell’esecuzione dello stesso. Diversamente, il patto è invalido.
Il patto di prova stipulato dopo la conclusione del contratto di lavoro è nullo.
Il patto di prova tutela l’interesse di entrambe le parti a sperimentarne la convenienza. Se questa verifica è già stata fatta, con esito positivo, per le mansioni oggetto di assunzione, in virtù di prestazioni rese dallo stesso lavoratore, per un congruo lasso di tempo, a favore dello stesso datore per effetto ad esempio di lavoro in somministrazione, il patto dovrà ritenersi illegittimo.
Allo stesso modo, la ripetizione del patto di prova in due successivi contratti di lavoro tra le stesse parti è tendenzialmente ammissibile se risponde a una finalità apprezzabile e non elusiva delle norme di legge. Ad esempio, se consente all’impresa di verificare le qualità professionali del lavoratore in relazione all’esecuzione di nuove e diverse mansioni (Cassazione, sentenza 17371 del 1° settembre 2015; Cassazione, sentenza 15059 del 17 luglio 2015).