Il licenziamento intimato per superamento del periodo di comporto va intimato senza ritardo. In questi termini si è espressa la Cassazione con ordinanza 15 novembre 2018, n. 29402.
La vicenda processuale ha preso le mosse dall'impugnazione di un licenziamento intimato per superamento del periodo di comporto per malattia previsto dal contratto collettivo, non nelle immediatezze dell'evento, ma decorsi quattro mesi da esso.
Secondo il giudice di prime cure, il licenziamento era da ritenersi legittimo, stante la peculiarità del tipo di licenziamento, non avente natura disciplinare. Di diverso avviso era però poi risultata la Corte d'Appello di Lecce, adita in sede di impugnazione, che si trovava ad annullare il provvedimento aziendale che aveva infatti accolto l'eccezione di tardività sollevata dalla ricorrente. Osservava infatti la Corte territoriale che il ritardo del datore di lavoro aveva determinato in capo alla lavoratrice il legittimo affidamento circa la possibilità di continuazione del rapporto, seppur a distanza di tempo dall'inizio della sua sospensione per malattia.
Avverso la sentenza di appello la Società ha dunque proposto ricorso per Cassazione, eccependo l'errata applicazione di legge da parte dei giudici di appello.
Investita della questione, la Corte di Cassazione ha condiviso l'interpretazione data in sede di appello, confermando che il licenziamento per superamento del periodo di comporto vada adottato nelle immediatezze dell'evento, in quanto un'attesa, sotto il profilo dei fatti concludenti, potrebbe ingenerare un legittimo affidamento circa l'intervenuta "stabilizzazione del rapporto" anche oltre la fine del comporto, ciò escludendo la legittimità dell'eventuale licenziamento.
In particolare, al fine della risoluzione della vicenda processuale, la Corte di Cassazione richiama la sentenza n. 194/2010, pronunciata da parte della medesima Corte territoriale, nella quale era stata affermata la necessità che il criterio della tempestività operasse anche in caso di licenziamento per periodo di comporto, criterio ad ogni modo "da commisurarsi non solo ad un dato strettamente cronologico, ma con riferimento all'intero contesto di circostanze utili a valutare il contegno azienda rispetto alla volontà o meno della risoluzione".
La pronuncia in esame si allinea ad un orientamento giurisprudenziale di legittimità consolidato che ha più e più volte ribadito l'illegittimità del licenziamento irrogato a distanza di tempo dalla maturazione del periodo di comporto, constatato che il decorrere di un lasso temporale considerevole altro non fa se non concretizzare la volontà abdicativa del datore di lavoro (Cass. Civ. Sez. Lav. n. 25535/2018).
Va tuttavia segnalato che non mancano pronunce che, seppur non in piena contraddizione con il principio sopra espresso, hanno ravvisato gli estremi per una parziale inversione dell'onere della prova vigente in caso di licenziamento, rilevando che in tali ipotesi debba essere il lavoratore "a provare che l'intervallo temporale tra il superamento del periodo di comporto e la comunicazione di recesso ha superato i limiti di adeguatezza e ragionevolezza, sì da far ritenere la sussistenza di una volontà tacita del datore di lavoro di rinunciare alla facoltà di recedere dal rapporto" (Cass. civ. Sez. Lav., n. 19400/2014).