Con la sentenza n. 31495 del 5 dicembre 2018, la Corte di cassazione torna a pronunciarsi sul tema del repêchage (istituto di creazione esclusivamente giurisprudenziale), quale presupposto costitutivo, unitamente alla sussistenza delle ragioni economiche di cui all'articolo 3 della legge n. 604/66, del licenziamento per giustificato motivo oggettivo.
Nel precedente grado di giudizio, la Corte d'appello di Milano aveva confermato la legittimità del licenziamento, ritenendo pienamente provata tanto l'effettiva sussistenza della riorganizzazione aziendale, causa della soppressione della posizione lavorativa del dipendente, quanto l'espletamento dell'obbligo di repêchage. In relazione a quest'ultimo aspetto, al termine dell'istruttoria emergeva da un lato la mancanza, nello specifico momento del licenziamento, di posizioni lavorative con mansioni equivalenti ovvero inferiori per una possibile ricollocazione del dipendente e, dall'altro, la perfetta conoscenza da parte del datore di lavoro della prossima e imminente disponibilità di due posti lavorativi con mansioni equivalenti a quelle del dipendente licenziato, per la cui copertura venivano compiute, poco tempo dopo, due nuove assunzioni. Evidentemente, i giudici del merito avevano accertato l'assolvimento dell'obbligo di repêchage, ritenendolo sussistente in capo al datore al momento dell'intimazione del licenziamento.
La sentenza della Cassazione, ribaltando completamente l'impostazione sposata dalla Corte territoriale, giunge a conclusioni opposte, ritenendo di dover dichiarare illegittimo il licenziamento proprio per il mancato espletamento dell'obbligo di repêchage da parte della società.
Ebbene, secondo la pronuncia in esame, in ossequio ad un recente orientamento (ex plurimis, Cass. 11 giugno 2014, n. 13112), il datore di lavoro che adduca a fondamento del licenziamento la soppressione del posto di lavoro cui era addetto il lavoratore licenziato ha l'onere di provare non solo che al momento del licenziamento non sussistesse alcuna posizione lavorativa, con mansioni equivalenti ovvero inferiori, alla quale il lavoratore licenziato avrebbe potuto essere assegnato, ma deve altresì «dimostrare di non avere effettuato per un congruo periodo di tempo successivo al recesso alcuna nuova assunzione in qualifica analoga a quella del lavoratore licenziato».
Alla luce delle conclusioni raggiunte dai giudici di legittimità, l'errore di diritto commesso dalla Corte territoriale è consistito proprio nella valutazione «istantanea» e attuale della possibilità di collocazione del dipendente, anziché con riferimento ad un congruo arco temporale successivo, durante il quale non devono intervenire nuove assunzioni per mansioni equivalenti a quelle in precedenza svolte dal lavoratore licenziato.
La lettura della pronuncia in commento, corretta sul piano dell'analisi fattuale, induce tuttavia qualche perplessità: il generico riferimento a un «congruo periodo di tempo successivo al licenziamento» - riferimento di creazione giurisprudenziale, non essendo rinvenibile alcuna specifica disposizione in merito - non fa altro che restringere, peraltro in maniera tutt'altro che chiara e definita, i margini di manovra del datore di lavoro, il quale, una volta di più, viene onerato da adempimenti probatori di non facile soluzione in caso di licenziamento per giustificato motivo oggettivo.