Al fine di verificare se le nuove mansioni attribuite al lavoratore non costituiscano una forma di dequalificazione professionale è irrilevante che il nuovo incarico sia formalmente equivalente alle precedenti attività, in quanto a essere dirimente è la omogeneità sul piano sostanziale tra le mansioni successivamente attribuite.
La Corte di cassazione afferma questo principio con sentenza 18031/2017 , nella quale ribadisce che il legittimo esercizio dello ius variandi prescinde del tutto dal fatto che le nuove mansioni siano incardinate nello stesso livello di inquadramento al quale il lavoratore già apparteneva.
Il dato essenziale cui si deve fare riferimento per valutare la legittimità delle nuove rispetto alle vecchie mansioni, prosegue la Corte, è quello di una verifica preventiva sull’equivalenza sostanziale, tale per cui le nuove attività siano omogenee in concreto rispetto a quelle precedenti, accertando ulteriormente che esse garantiscano non soltanto lo svolgimento, ma anche l’accrescimento delle capacità professionali sviluppate dal dipendente in costanza del rapporto.
La distanza che questa pronuncia esprime rispetto alle nuove disposizioni in materia di variazione delle mansioni introdotte dall’articolo 3 del Dlgs 81/2015 è siderale, in quanto il nuovo impianto dell’articolo 2103 del Codice civile espressamente prevede che tutte le mansioni riconducibili allo stesso livello e categoria legale siano esigibili.
Siamo in presenza di una sentenza che dimostra quanto radicalmente sia mutata, per effetto delle nuove disposizioni introdotte dal Jobs act, la disciplina di legge sulla gestione delle attività assegnate ai lavoratori in costanza di rapporto, perché oggi la valutazione cui sono chiamati il datore di lavoro (in primis) e il giudice è essenzialmente incentrata sulla verifica circa l’appartenenza delle nuove mansioni al medesimo livello in cui è inquadrato il lavoratore.
Il caso sul quale è stata chiamata a pronunciarsi la Cassazione è relativo a una vicenda che si è esaurita prima che entrassero in vigore le disposizione del nuovo articolo 2103. È in questo contesto che si colloca l’affermazione per cui il divieto di variare in peius le mansioni dei dipendenti comporta che non possano essere attribuite al lavoratore attività sostanzialmente inferiori a quelle precedenti, anche se le une e le altre sono formalmente riconducibili nel medesimo livello di qualificazione.
La circostanza che, nella fattispecie esaminata, la riclassificazione del personale fosse il frutto di un accordo con le organizzazioni sindacali non può modificare questa conclusione, ad avviso della Corte, in quanto integra gli estremi della dequalificazione professionale l’attribuzione di nuove mansioni che, benché coerenti con il nuovo sistema di classificazione, sono incompatibili con la storia professionale del lavoratore.
Se la stessa vicenda fosse avvenuta dopo l’entrata in vigore del Dlgs 81/2015, la sentenza avrebbe conosciuto un esito opposto, in quanto il parametro centrale di riferimento dal legittimo esercizio dello ius variandi è oggi costituito dal sistema di classificazione previsto dai contraenti collettivi.