Il trasferimento di sede disposto nei confronti di un dipendente in mancanza di effettive ragioni tecniche, organizzative o produttive non può giustificare, per ciò solo, il rifiuto del lavoratore di adempiere al provvedimento e, quindi, di sospendere unilateralmente la prestazione lavorativa. Non è, tuttavia, neppure necessariamente richiesto il presupposto di un provvedimento dell'autorità giudiziaria che annulli il trasferimento perché il lavoratore possa astenersi dal rendere la prestazione nella sede di destinazione.
La Cassazione precisa (sentenza 11408/2018) che, se il lavoratore si è mosso in buona fede, sulla scorta di apprezzabili esigenze personali e in presenza di una condotta datoriale connotata da serio inadempimento, il rifiuto di spostarsi di sede è perfettamente legittimo e non richiede che il dipendente abbia preventivamente attivato un ricorso d'urgenza e ricevuto l'avallo di una ordinanza giudiziaria.
La Suprema corte rimarca, a questo proposito, che il rapporto di lavoro rientra nello schema dei contratti a prestazioni corrispettive, nel cui ambito la parte non inadempiente (il dipendente) può sospendere l'esecuzione della prestazione (lavorativa) se, avuto riguardo alle specifiche circostanze che hanno caratterizzato il caso concreto, si può concludere che il rifiuto opposto alla parte inadempiente (il datore) rispetta il canone della buona fede nell'esecuzione del contratto.
Si tratta, dunque, di verificare se il lavoratore - che, messo davanti a un trasferimento di sede illegittimo, abbia sospeso unilateralmente la propria attività - si è mosso lungo il crinale della buona fede o se, al contrario, abbia assunto una reazione sproporzionata rispetto all'entità effettiva dell'inadempimento subito.
La Cassazione offre gli elementi per compiere questa verifica in una prospettiva di bilanciamento degli opposti interessi, soffermandosi sulla incidenza concreta del trasferimento illegittimo rispetto a fondamentali esigenze di vita e familiari del lavoratore, così come sugli effetti negativi che il rifiuto del dipendente potrà esprimere rispetto all'organizzazione aziendale, nonché sulla gravità dell'inadempimento datoriale anche rispetto alle ragioni formalmente addotte a presidio del mutamento della sede di lavoro.
La Suprema corte rigetta, invece, la prospettazione secondo cui il trasferimento in violazione dell'articolo 2103 del codice civile costituisce un provvedimento nullo che, come tale, non esprime effetti sul rapporto di lavoro e non pone, quindi, alcun obbligo sul lavoratore. È sotto questo profilo che la Cassazione riforma la sentenza della corte d'appello territoriale, la quale aveva dichiarato l'illegittimità del licenziamento intimato ad un lavoratore, che si era rifiutato di adempiere al trasferimento, sul semplice presupposto della sua contrarietà alla disciplina codicistica.
La Suprema corte è di diverso avviso e rimarca che, quantunque la legittimità del rifiuto al trasferimento non sia necessariamente subordinata a un precedente avallo giudiziale, non possa prescindersi da una verifica in concreto delle circostanze che rendono la reazione unilaterale del lavoratore conforme a buona fede.