Si va verso il ripristino delle «causali» nei contratti a termine, con l’individuazione, ex lege, di tre “motivi” che le imprese dovranno indicare per poter ricorrere a lavoratori a tempo. Sulle delocalizzazioni si punta invece a rafforzare i vincoli già esistenti, innanzitutto trasformando in legge alcuni principi contenuti in una circolare del precedente governo. Questi interventi dovrebbero essere inseriti nel primo decreto legge, in arrivo probabilmente già entro fine mese. Il ministro dello Sviluppo e del Lavoro, Luigi Di Maio, preannuncia anche che il provvedimento conterrà l’eliminazione di spesometro, redditometro e studi di settore e il divieto della pubblicità del gioco d’azzardo.
Di Maio, che ha indirettamente risposto a Salvini sottolineando che lo stop al tetto sul contante non è nel contratto di governo, ha ribadito, inoltre, l’intenzione di chiedere alla Ue «se serve, di poter accedere a investimenti ad alto valore anche in deficit».
Il decreto legge allo studio del governo Conte, quindi, dovrebbe contenere la prima, vera, spallata al Jobs act. Nel mirino, i contratti a termine, liberalizzati nel 2014 dal decreto Poletti. L’idea del ministro Di Maio è quella di reintrodurre dei motivi legittimanti il ricorso ai contratti a termine: dovrebbero essere tre, vale a dire ragioni tecnico-produttive, organizzative (tra cui i nuovi progetti) o sostitutive. Nel mirino ci sarebbero anche le durate: qui allo studio è la possibilità di vietare alla contrattazione collettiva di allungare il tetto “europeo” dei 36 mesi di durata massima dei rapporti a tempo determinato.
Sul fronte articolo 18 non dovrebbero esserci retromarce: le tutele crescenti resterebbero, forse (è una ipotesi in circolazione) si aumenterebbero gli indennizzi nei licenziamenti illegittimi. Due altre novità sono state annunciate ieri direttamente dal ministro Di Maio: un rafforzamento delle tutele per i lavoratori 4.0 (tra cui i riders) e agevolazioni Iva «sugli acquisti effettuati dai datori di lavoro su tutto quello che concerne il settore della sicurezza per le aziende».
Nel decreto legge entrerà poi la stretta per le aziende che, dopo aver ricevuto incentivi pubblici, decidono di delocalizzare. Per evitare eccessiva retorica sul tema, è utile chiarire innanzitutto la legislazione già esistente. La legge di stabilità 2014, sulla base di un emendamento proprio dei Cinque Stelle, già prevede la restituzione degli incentivi in conto capitale (per investimenti produttivi) se prima che siano passati tre anni si delocalizza fuori dalla Ue riducendo il personale di almeno la metà. Nel 2017, poi, il ministero dello Sviluppo aveva previsto con una circolare - riguardante le altre tipologie di incentivi (a partire dalla ricerca) - che in sede di concessione dei contributi si inserisse una «clausola, anche di fonte pattizia» su un obbligo di mantenimento della struttura produttiva.
Ora il nuovo governo vorrebbe trasformare questa clausola in una vera legge. E contemporaneamente rafforzare l’emendamento M5S di quattro anni fa. Alcune opzioni tecniche sono già state studiate. Il divieto di delocalizzare resterebbe di 3 anni ma riguarderebbe anche la messa in mobilità del personale (e senza tetto del 50%). Inoltre (ipotesi più radicale in esame) potrebbe riguardare anche la cessione di rami d’azienda o di attività appaltate a terzi e la restituzione dei contributi potrebbe essere maggiorata dagli interessi legali.
Non solo. C’è un’altra idea sul tavolo, mutuata dalla Francia e tra l’altro studiata anche dall’ultimo governo. Le multinazionali (almeno un migliaio di dipendenti) avrebbero l’obbligo di cercare per un determinato periodo un nuovo acquirente che garantisca il mantenimento dei livelli occupazionali. In caso di inottemperanza, scatterebbero anche sanzioni pari al 2% del fatturato degli ultimi cinque anni. Su tutto lo schema di lavoro in esame, va detto, pende l’incertezza sulla reale applicabilità a delocalizzazioni interne all’Europa e non solo a quelle extra Ue.