Due forme di collaborazione – quella coordinata e continuativa disciplinata dal Codice di procedura civile (co.co.co.) e quella etero-organizzata introdotta dal Jobs Act (co.co.org.) – con regimi di tutela profondamente differenti tra loro e un ampio spazio di intervento per le parti sociali rispetto alla seconda forma: questo il panorama del lavoro parasubordinato che viene fuori dalla ricostruzione, ampia e approfondita, operata dalla sentenza del Tribunale di Roma del 6 maggio scorso (si veda «Il Sole 24 Ore» di ieri) e, prima di essa, dalla sentenza della Corte d’appello di Torino sul caso Foodora.
La prima forma di collaborazione – già nota da decenni al nostro ordinamento – è quella coordinata e continuativa ordinaria. Per questa fattispecie, se le parti si comportano in maniera corretta, lasciando al collaboratore autonomia nell’esecuzione della prestazione, non ci sono particolari problemi di qualificazione e gestione del rapporto.
Diversa, e più articolata, è la disciplina applicabile alla collaborazione coordinata e continuativa che presenta l’elemento della cosiddetta etero-organizzazione (co.co.org., secondo l’efficace sintesi della sentenza di Roma) introdotto dall’articolo 2, comma 1 del decreto legislativo 81/2015.
Tale elemento si concretizza nel potere del committente di determinare le modalità di esecuzione della prestazione del collaboratore, tramite la possibilità di stabilire i tempi e i luoghi di lavoro. Se la collaborazione presenta questa caratteristica, resta autonoma, ma ogni aspetto del rapporto (sicurezza sul lavoro, retribuzione, inquadramenti, orario, ferie e previdenza) viene regolato secondo le norme del lavoro subordinato.
L’applicazione delle regole del lavoro subordinato, tuttavia, può essere evitata quando sussista – in base all’articolo 2, comma 2 del Dlgs 81/2015 - un accordo collettivo, a patto che questo presenti alcune specifiche caratteristiche. In primo luogo, l’intesa deve essere siglata da soggetti comparativamente più rappresentativi (dei collaboratori) sul piano nazionale. In secondo luogo, l’accordo deve essere finalizzato a fronteggiare «particolari esigenze produttive ed organizzative» delle parti. Inoltre, la disciplina collettiva non deve limitarsi a definire il compenso minimo ma, secondo quanto richiesto dalla legge, deve individuare oltre a quelle economiche anche tutele di tipo normativo.
Questa ricostruzione non è ancora consolidata in giurisprudenza, dove potrebbe farsi strada anche una tesi diversa (e più rigida) orientata a riqualificare integralmente il rapporto di collaborazione quando si riscontri la presenza di etero-organizzazione.
Sarebbe tuttavia auspicabile il rafforzamento dell’indirizzo tracciato dalle sentenze di Roma e Torino, in quanto il regime di tutela che ne viene fuori – pur in un quadro di eccessiva complessità delle regole – bilancia in maniera equilibrata gli interessi delle parti.
La sentenza di Roma mette anche in luce il grande potere che – sulla base del Dlgs 81/2015 - hanno le parti sociali nella definizione delle tutele nei casi dove il confine tra lavoro subordinato e autonomo è molto labile. Potere che, finora, è stato utilizzato in maniera limitata, ma che potrebbe risolvere molti casi spinosi, non ultimo quello dei riders: una disciplina collettiva equilibrata aiuterebbe a disinnescare il contenzioso sulla qualificazione del rapporto in modo più efficace rispetto agli interventi normativi annunciati più volte negli ultimi mesi.