Per evitare il licenziamento che conseguirebbe al decorso del periodo di comporto, il dipendente malato può chiedere di fruire delle ferie maturate prima che si avvicini la scadenza del comporto stesso.
Questa è la precisazione fornita dalla Corte di cassazione con ordinanza 10725/2019. Nel caso specifico, una lavoratrice malata, alcuni mesi dopo aver chiesto e non ottenuto la conversione del titolo di assenza da malattia a ferie, è stata licenziata per superamento del periodo di comporto.
Sia il tribunale che la Corte d'appello hanno accolto le domande della ricorrente. La Corte di cassazione ha confermato l'impianto argomentativo dei due giudici di merito. Nel far ciò ha operato un breve excursus dei principali punti in tema di conversione del titolo dell'assenza, senza tuttavia soffermarsi sulle conseguenze operative che ne possono derivare, quali la necessità di valutare gli opposti interessi (del datore e del dipendente) prima che sia evidente l'imminente scadenza del comporto.
In primis, la Corte ha ricordato che, per ormai consolidato principio di diritto «il lavoratore assente per malattia ha facoltà di domandare la fruizione delle ferie maturate e non godute, allo scopo di sospendere il decorso del periodo di comporto, non sussistendo una incompatibilità assoluta tra malattia e ferie». Tale facoltà però, non deve corrispondere a un obbligo del datore di lavoro di accogliere la richiesta, qualora ricorrano ragioni organizzative di natura ostativa.
D'altro canto, la Corte afferma che «in un'ottica di bilanciamento degli interessi contrapposti, nonché in ossequio alle clausole generali di correttezza e buona fede, è tuttavia necessario che le dedotte ragioni datoriali siano concrete ed effettive» (mentre, nel caso specifico, il rifiuto del datore non è stato accompagnato da alcuna prova di esigenze aziendali, né tanto meno della prevalenza di quest'ultime rispetto all'interesse della ricorrente alla conversazione del posto). Pertanto, in presenza di una richiesta disattesa di ferie, anche se formulata mesi prima, il licenziamento non è stato ritenuto fondato.
Altro punto interessante dell'ordinanza è la conferma delle pronunce di merito, laddove hanno riconosciuto che la ricorrente ha subito mobbing e le hanno concesso il relativo risarcimento. La Corte ha infatti ricordato che «ai fini della configurabilità del mobbing lavorativo, l'elemento qualificante, che deve essere provato da chi assuma di avere subito la condotta vessatoria, va ricercato non nell'illegittimità dei singoli atti bensì nell'intento persecutorio che li unifica» e che la responsabilità per mobbing deve essere inquadrata nell'ambito applicativo dell'articolo 2087 del codice civile, in quanto ricollegata alla violazione dell'obbligo di sicurezza datoriale nei confronti dei propri dipendenti.
Su tali basi, la Corte ha ritenuto unificate da volontà vessatoria e pertanto mobbizzanti le continue e pressanti richieste di chiarimenti circa le assenze per malattia e le cure mediche, la privazione della parte più rilevante delle mansioni al rientro dalla malattia e la richiesta di dimissioni. I giudici hanno ritenuto che ciascuno di tali comportamenti sarebbe stato singolarmente legittimo (non avendo rilevato demansionamento) sebbene complessivamente costituenti mobbing. Non sono mancate in passato le pronunce in cui un eccesso di visite fiscali (anche assieme ad altri fatti) sia stato ritenuto vessatorio: l'ordinanza 10725/2019 impone ai datori anche di prestare attenzione alle modalità con cui chiedere ai dipendenti notizia circa le assenze per malattia.