Il tema della prescrizione dei contributi previdenziali (articolo 3, commi 9 e 10, della legge 335/1995) non cessa di impegnare gli operatori e gli interpreti, probabilmente a causa degli effetti dirompenti che, sulle singole posizioni contributive dei lavoratori, comporta l'inesigibilità della contribuzione prescritta.
Da qui l'impegno della giurisprudenza nell'individuare con sufficiente certezza i termini di decorrenza del termine prescrizionale quinquennale (che solo apparentemente sembra sufficientemente lungo da permettere una comoda gestione), sia nel caso di contribuzione a carico dei lavoratori autonomi, nella quale maggiore sono gli effetti estintivi connessi al decorso del termine, sia nel caso di contribuzione per il lavoro dipendente, dove gli effetti del mancato versamento dei contributi sono mitigati dal principio dell'automatismo e dove l'estinzione del credito contributivo trova alcuni rimedi nell'ordinamento per impedire danni sproporzionati al lavoratore.
Nel caso affrontato dalla Corte di cassazione, sezione lavoro, 14 giugno 2019, numero 16038, il datore aveva omesso la presentazione della denuncia mensile, lasciando quindi alla decisione giudiziale la verifica dell'eventuale prescrizione rispetto al momento successivo in cui era stato notificato il verbale di accertamento dell'Inps, ricognitivo dell'inadempimento contributivo.
Da un punto di vista generale, la Cassazione rileva che i termini di prescrizione dei contributi sono di per sé neutri: se la prescrizione si è già maturata, non è possibile impedirne gli effetti come accade nel diritto civile, perché si tratta di un regime pubblicistico (che ha a che fare con la provvista per il funzionamento del sistema pensionistico). E questo vale anche per le contribuzioni relative a periodi precedenti il 1995 e per le contribuzioni obbligatorie in genere: decorso il termine di prescrizione il diritto si estingue, ed eventuali versamenti sono indebiti e devono essere restituiti.
Il termine di prescrizione decorre indipendentemente dalla richiesta di pagamento effettuata dall'ente previdenziale creditore e trova il suo presupposto unicamente nello svolgimento di attività lavorativa quale antecedente necessario dell'obbligo contributivo collegato. Ecco che sulla base di questi principi diventa maggiormente decifrabile la soluzione data dalla sentenza in commento alla corretta individuazione del dies a quo nel caso di omessa presentazione dei modelli DM (delle denunce mensili). Secondo la tesi dell'ente previdenziale, in assenza di tale flusso informativo, il termine iniziale deve essere necessariamente individuato nella data di presentazione del modello reddituale finale, con cui annualmente il datore di lavoro, quale sostituto d'imposta, comunica all'agenzia delle Entrate i dati relativi alle ritenute operate in ciascun periodo di imposta: i totali imponibili e i contributi versati ai fini pensionistici di Tfr e Tfs, del Fondo Credito, dell'Enpdep.
Ebbene, secondo la Sezione Lavoro, la prescrizione decorre dal momento in cui sorge il credito contributivo, momento che coincide con il ventunesimo giorno di ogni mese avuto riguardo alle somme maturate per il mese precedente, in quanto (nel regime applicabile al caso di specie) il datore di lavoro è tenuto al versamento dei contributi relativi al rapporto di lavoro entro il giorno venti del mese successivo a quello di riferimento. Sotto questo aspetto, secondo la Cassazione non ha rilevanza neanche il comportamento doloso del datore di lavoro che abbia occultato all'Inps l'imponibile contributivo; non siamo in presenza di una causa di sospensione del termine di prescrizione, in quanto tale causa di sospensione (ex art. 2941, n. 8) del Codice civile), ricorre quando sia posta in essere dal debitore una condotta tale da comportare per il creditore una vera e propria impossibilità di agire e non una mera difficoltà di accertamento del credito.
Il discorso è molto delicato e impone la valutazione del grado di intenzionalità nel comportamento del debitore volto ad occultare il debito contributivo. Solo quando l'occultamento sia tale da impedire l'accertamento del credito, anche mediante i normali controlli e l'utilizzo degli ordinari strumenti conoscitivi da parte dell'ente previdenziale, è possibile parlare di causa di sospensione. La mancata denuncia del reddito, sotto questo profilo, non pare dotata, secondo la Cassazione, da un simile grado di intenzionalità e non fonda alcun impedimento assoluto non superabile mediante l'esercizio dei normali controlli che l'Istituto può attivare anche mediante la collaborazione e le sinergie con le Entrate (cfr. Cass. n. 17769/2015). Occorre, tuttavia, riconoscere che non tutta la giurisprudenza della Cassazione è assestata su questa linea rigorosa. Vi sono infatti pronunce di segno diverso (es. ord. n. 6677/2019), che pongono in rilievo la comunicazione dei dati reddituali come unico ed esclusivo documento idoneo a consentire all'ente previdenziale la verifica della produzione di un reddito (in quel caso da lavoro autonomo) suscettibile di obbligo contributivo.