Una società decideva di interrompere il rapporto di lavoro nei riguardi di un dipendente.
Avverso detta decisione, l’interessato proponeva reclamo presso il Tribunale competente, per sostenere l’illegittimità della sua estromissione, in quanto si trattava di un’intimazione di licenziamento effettuata senza l’osservanza della forma scritta, ma le doglianze venivano rigettate.
La decisione non veniva confermata dai giudici di appello, i quali accoglievano il reclamo e condannavano la datrice di lavoro sia alla reintegra del lavoratore, sia alla corresponsione di un’adeguata indennità.
Secondo i giudici di secondo grado, in caso di licenziamento verbale si assiste ad un’inversione dell’onere probatorio, il quale ricade non più sul lavoratore, che può limitarsi solo a provare la mera interruzione del rapporto di lavoro, ma sul datore di lavoro. Quest’ultimo, infatti, deve dimostrare che la cessazione sia dipesa da un fatto estintivo diverso dal licenziamento. Nel caso di specie nessuna prova era stata fornita dalla datrice di lavoro, la quale implicitamente confermava l’illegittimità del proprio operato. Avverso detta sentenza la società proponeva quindi ricorso in Cassazione.
La Corte di Cassazione con la sentenza n. 18402, depositata il 9 luglio 2019, ha accolto il ricorso della datrice di lavoro. I giudici di legittimità, richiamando un principio di diritto consolidato anche da recenti pronunce (Cass. 3822/2019), asseriscono che in caso di impugnazione di un licenziamento verbale, il lavoratore deve dimostrare che la risoluzione del rapporto di lavoro sia ascrivibile alla volontà del datore di lavoro, manifestata anche con comportamenti concludenti.
Pertanto, l’allegazione della mera cessazione dell’esecuzione delle prestazioni lavorative, non è considerata una prova esaustiva dell’illegittimità della decisione assunta dal datore di lavoro.
Nel caso di specie, i giudici di appello avevano erroneamente ritenuto sufficiente la sola intervenuta cessazione del rapporto di lavoro, supportata dalla presunta mancata prova, da parte della società datrice di lavoro, che detta interruzione fosse avvenuta per ragioni diverse dal licenziamento; da qui l’accoglimento del ricorso.