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Il mobbing può essere provato anche tramite presunzioni

Pubblicato il 18 novembre 2019 Il Sole 24 Ore; Italia Oggi;

In una causa per mobbing o straining, la prova dell’elemento intenzionale e vessatorio del datore di lavoro può essere fornita dal lavoratore anche in base alle caratteristiche oggettive dei comportamenti tenuti, e cioè su presunzioni gravi, precise e concordanti, dai quali è possibile risalire da fatti noti ad altri ignorati (articolo 2727 del Codice civile). Lo ha deciso la Corte di cassazione (sezione lavoro, sentenza 23918 del 25 settembre 2019), e similmente, in un contesto di lavoro non contrattualizzato, il Consiglio di Stato (sezione IV, sentenza 4471 del 1° luglio 2019 ), che ha affermato che la prova dell’animus nocendi può essere soddisfatta dal dipendente anche attraverso presunzioni tratte da elementi oggettivamente riscontrabili. Apertura della giurisprudenza del tutto in linea con l’accertamento del dolo in materia penale (posto che, in mancanza di confessione da parte dell’interessato o testimonianza è assai arduo provare l’elemento della volontà criminale, per definizione interno alla persona), ma che con fatica ha trovato approdo nella giurisprudenza del lavoro, impegnata a dare una configurazione giuridica a un fenomeno non regolato dalla legge, e i cui parametri si rapportano a conflitti e sofferenze all’interno del contesto lavorativo, studiate ed elaborate dalla scienza medica e quindi in un ambito extra-giuridico.

Il rischio di richieste risarcitorie pretestuose, ha messo la giurisprudenza sulla difensiva, dando al lavoratore l’onere non solo della prova dell’elemento “oggettivo” del mobbing, e cioè la pluralità di azioni dirette alla sua umiliazioni personale e professionale - sia illecite, quale il demansionamento, irrogazione di sanzioni disciplinari infondate o controlli ingiustificati e ossessivi, ma anche lecite, attuate attraverso omissioni, quali la mancanza di valorizzazione del dipendente, o lo svuotamento delle attività assegnate, o l’eccessivo carico di lavoro - ma anche dell’elemento soggettivo persecutorio del datore di lavoro. Elementi entrambi richiesti dalla consolidata giurisprudenza, sebbene riconducibili alla violazione, di natura contrattuale e non extracontrattuale (con il conseguente termine decennale di prescrizione - dell’obbligo di tutela dell’integrità fisica e della personalità morale del lavoratore gravante sul datore di lavoro in base all’articolo 2087 del Codice civile. Ricorda infatti il Consiglio di Stato, nella sentenza citata, che la ricostruzione giurisprudenziale del mobbing, richiede alla vittima di provare il dolo del mobber, pur facendosi valere la responsabilità contrattuale, «essendo un elemento fondante la stessa illiceità in termini di mobbing della condotta datoriale». Questa circostanza, però, si può rivelare una probatio diabolica, con il conseguente rigetto della domanda risarcitoria, e, forse, una giustizia negata. Per questo, appare più che giustificata la legittimazione giurisprudenziale al ricorso a elementi oggettivi di natura presuntiva, dai quali desumere l’intento persecutorio, la cui valutazione è affidata alla prudente valutazione del giudice del merito (si veda da ultimo la sentenza della Corte d’appello di Roma del 24 settembre 2019, che ha confermato gli elementi sintomatici del mobbing, già riconosciuti dal Tribunale).

Sotto il profilo della supervisione del giudice di legittimità, non è stato ritenuto sufficiente, ai fini del riconoscimento dell’intento persecutorio nei confronti del lavoratore, limitarsi a «dedurre che mentre ai colleghi fu consentito di proseguire con la modalità di tele-lavoro notturno, solo a lei (a una dipendente, ndr.) fu impedito» (Cassazione, sent. 23918 del 2019).


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