Un istituto di credito, a causa di esigenze riorganizzative, consistenti nella riduzione delle posizioni dirigenziali, proponeva ad un lavoratore, in ottemperanza all’Accordo Sindacale siglato, la rescissione del contratto in vigenza e la contestuale riassunzione nel livello quadro direttivo. Il dipendente non accoglieva l’offerta ed il datore di lavoro gli intimava il licenziamento. Detto provvedimento veniva immediatamente impugnato innanzi al Tribunale competente, per sentir dichiarata l’illegittimità ed ottenere il reintegro nella posizione lavorativa.
Le doglianze erano accolte e la decisione veniva riconfermata anche dalla Corte di Appello, ritenendo il licenziamento ritorsivo. La suddetta conclusione era confortata dalla quasi imminenza della notifica dell’interruzione del rapporto di lavoro, con la scelta del dipendente di non accogliere la proposta del datore di lavoro, a titolo di mera rappresaglia. Avverso detta sentenza l’istituto di credito ricorreva in Cassazione.
La Corte di Cassazione con la sentenza n. 31526 depositata il 3 dicembre 2019, ha accolto il ricorso del datore di lavoro, limitatamente al disconoscimento della qualifica di licenziamento ritorsivo.
I giudici di legittimità asseriscono che per garantire la tutela prevista dall’art. 18 della legge 300/1970 consistente nel reintegro e nella tutela indennitaria, occorre, come prescritto dalla legge 92/2012, che l’unico motivo, determinante e fondante il licenziamento, sia illecito, la cui prova ricade sul lavoratore.
Nel caso del licenziamento del dirigente di azienda, secondo quanto disposto dalla legge 604/1966, prosegue la Corte, la nozione ivi prevista si discosta da quella di giustificato motivo ed è ravvisabile nell’esigenza di risparmio, nell’ottica di un riassetto societario che non sia discriminatorio ed in contrasto con la buona fede.
Inoltre, proseguono i giudici della Corte, esso può fondarsi anche su ragioni oggettive concernenti la riorganizzazione aziendale, che non devono coincidere con l’impossibilità della continuazione del rapporto o con una situazione di crisi, poiché il principio della correttezza e della buona fede, quale parametro su cui misurare la legittimità del licenziamento, deve essere coordinato con la libertà di iniziativa economica di cui all’art. 41 Cost.
Nel caso di specie, detto accertamento non è stato correttamente condotto, in quanto i giudici di merito hanno valutato prima il recesso basato su un presunto riassetto del personale per questioni economiche e poi il rifiuto della proposta effettuata al lavoratore, omettendo quindi la ricerca del passaggio logico giuridico posto alla base della suddetta scelta datoriale. Da qui il parziale accoglimento del ricorso.