Il comportamento del dipendente che utilizzi il permesso previsto dall’articolo 33 della legge 104/1992 per scopi diversi da quelli per cui è riconosciuto, integra l'abuso del diritto e viola i principi di correttezza e buona fede, sia nei confronti del datore di lavoro che dell'ente assicurativo. È questo, in sintesi, il principio espresso dall'ordinanza 23434/2020 della Cassazione (pubblicata il 26 ottobre), relativo al licenziamento per giusta causa intimato da una società in ragione di una fruizione non legittima dei permessi stessi.
L’articolo 33, comma 3, della legge 104/1992 attribuisce al lavoratore dipendente pubblico o privato, che assiste persona con handicap in situazione di gravità, il diritto di fruire di periodi di permessi retribuiti, a condizione che la persona disabile non sia ricoverata a tempo pieno.
In particolare, il lavoratore dipendente, che assiste persona con handicap in situazione di gravità, coniuge, parente o affine entro il secondo grado, ovvero entro il terzo grado qualora i genitori o il coniuge della persona da assistere abbiano compiuto i sessantacinque anni di età oppure siano anche essi affetti da patologie invalidanti o siano deceduti o mancanti, ha diritto a fruire di tre giorni di permesso mensile retribuito coperto da contribuzione figurativa, anche in maniera continuativa. In base al comma 7 bis della stessa norma, ferma restando la verifica dei presupposti per l'accertamento della responsabilità disciplinare, il lavoratore decade dai diritti di cui sopra, qualora il datore di lavoro o l'Inps accerti l'insussistenza o il venir meno delle condizioni richieste per la legittima fruizione del permesso e dei diritti collegati.
La ratio della normativa in tema di permessi impone il riconoscimento del beneficio al lavoratore in ragione e in funzione dell'assistenza al disabile e in relazione causale diretta con essa. Dunque, il comportamento del dipendente che si avvalga di tale beneficio per occuparsi e soddisfare esigenze diverse integra l'abuso del diritto e viola i principi di correttezza e buona fede, sia nei confronti del datore di lavoro che dell'ente assicurativo, con rilevanza anche ai fini disciplinari.
In particolare, costituiscono comportamenti non rientranti nell'ambito dell'assistenza al disabile, e quindi posti in contrasto ai doveri di correttezza e buona fede derivanti dal contratto di lavoro, il semplice riposarsi, andare a fare la spesa per la propria famiglia, portare a spasso il cane. Naturalmente, il concetto di assistenza al disabile deve essere valutato in senso ampio e non inutilmente restrittivo, in quanto il requisito indispensabile e non derogabile impone che l'assenza dal lavoro si ponga in relazione diretta con l'esigenza per il cui soddisfacimento il diritto stesso è riconosciuto, ossia l'assistenza al disabile; questa attività può essere posta in essere con modalità diverse, anche attraverso lo svolgimento di incombenze amministrative, pratiche o di qualsiasi genere, purché nell'interesse del familiare assistito (si veda Cassazione 23891/2018).
Quando invece tale requisito non sia riscontrabile e diventi troppo tenue (o sia del tutto assente) il collegamento tra attività svolta e assistenza al disabile, siamo in presenza di una situazione che da una parte costituisce una violazione dei doveri nei confronti del datore di lavoro (privato della prestazione lavorativa del dipendente in violazione dell'affidamento riposto) e dall'altra provoca uno sviamento dell'intervento assistenziale a fronte dell'indebita percezione della relativa indennità.
La questione si sposta dunque tutta in ambito probatorio: anche se in astratto è discutibile far rientrare nel concetto di assistenza in senso lato ad esempio la partecipazione del lavoratore a incontri di formazione/informazione sulla malattia del soggetto disabile (come nel caso specifico era successo), occorre comunque provare con certezza che il lavoratore utilizzi i permessi per svolgere attività solo o esclusivamente nel proprio interesse, con utilizzazione dei permessi in funzione meramente compensativa delle energie impiegate dal dipendente per assicurare l'effettiva e prevalente assistenza a favore del soggetto disabile.
Sotto questo profilo, la Cassazione, (sentenza 18411/2019) ha affermato che il datore di lavoro può legittimamente affidarsi a un investigatore privato per la verifica circa il corretto utilizzo dei permessi da parte del lavoratore, soprattutto quando abbia elementi tali da indurre un ragionevole sospetto che vi sia un comportamento illegittimo. Non si tratta infatti di una vigilanza sulle modalità di esplicazione dell'attività lavorativa, quanto della verifica di comportamenti che possono integrare attività fraudolente o avere rilievo penale (si veda la sentenza 4984/2014).