Il danno subito dal lavoratore per demansionamento non deriva automaticamente dall’inadempimento del datore di lavoro, cioè dall’assegnazione di compiti di livello inferiore. Per il diritto al risarcimento non è sufficiente la mera potenzialità lesiva della condotta: il lavoratore deve anche provare il danno patrimoniale, anche in termini di progresso di carriera. Lo ha chiarito l’ordinanza 23144 del 2020 del 22 ottobre 2020 della Cassazione.
Il ricorrente, dipendente di un’azienda come esperto di attività legali in materia di appalti, gestione rifiuti e tutela ambientale, lamentava un demansionamento per essere stato distaccato in un’azienda controllata, dove era stato adibito alla gestione di dati amministrativi relativi agli automezzi delle società del gruppo. Il lavoratore si doleva dunque del danno non patrimoniale (biologico, esistenziale, all’immagine). La domanda veniva accolta in primo grado, ma la sentenza veniva riformata in appello perché, secondo la Corte «nel ricorso erano contenute solo affermazioni generiche e tautologiche o di scarsissimo rilievo, che non descrivevano alcuna circostanza specifica ed individuata nello spazio e non consentivano di ricostruire in concreto alcun danno apprezzabile all’integrità psicofisica, alla vita di relazione alla progressione di carriera, all’immagine personale e professionale del lavoratore».
La Cassazione ha respinto l’ulteriore ricorso perché «in tema di demansionamento e dequalificazione professionale, il pregiudizio – danno non patrimoniale – non si identifica con l’inadempimento datoriale e non si pone quale conseguenza automatica di ogni comportamento illegittimo (...) cosicchè non è sufficiente dimostrare la mera potenzialità lesiva della condotta datoriale, incombendo sul lavoratore non solo di allegare il demansionamento ma anche di fornire la prova ex articolo 2697 del Codice civile del danno non patrimoniale e del nesso di causalità con l’inadempimento datoriale».
Il pregiudizio, pertanto, è cosa diversa dall’inadempimento, anche se il primo può essere desunto attraverso la prova per presunzioni, purché gli indizi siano integrati da elementi (allegati) che in concreto – e non in astratto – descrivano la durata del demansionamento, la conoscibilità all’interno e all’esterno dell’ ambiente lavorativo, la frustrazione di aspettativa di progressione professionale, i riflessi sulle abitudini di vita del soggetto e così via.
Il principio non è nuovo, ma sicuramente questa pronuncia sottolinea una volta di più e con più rigore la regola secondo cui nella prova presuntiva, la parte danneggiata ha l’onere di fornire la prova diretta di tutto ciò che costituisce il fatto. Proprio quest’onere è il tratto distintivo fra il piano del “danno evento” da quello del “danno in re ipsa”, in quanto per il secondo lo sforzo probatorio si arresta alla lesione del diritto, nell’altro si estende anche a circostanze ulteriori. Il fatto noto non può essere unicamente l’ingiustizia sic et simpliciter, ma, quanto meno, l’ingiustizia circostanziata.
In questo ambito, il panorama giurisprudenziale è differenziato: tra le pronunce più recenti, la 9295 della Cassazione del 20 maggio 2020 richiede che le presunzioni siano ancorate a circostanze precise e puntuali. Negli stessi termini si pongono Cassazione 4100 del 18 febbraio 2020, 2056 del 29 gennaio 2018. Invece la 7483 del 23 marzo 2020 ritiene significativa la durata del depauperamento professionale.
Altre pronunce (Cassazione 32982 del 13 dicembre 2019 e 25743del 15 ottobre 2018) ritengono che ci debba essere un alleggerimento dell’onere probatorio nell’ipotesi in cui il lavoratore, prima adibito a mansioni che fossero espressione di una rilevante o specifica professionalità, sia lasciato inattivo. In simili ipotesi è accertato il danno alla personalità a seguito di una interruzione nello sviluppo della professionalità acquisita sino a quel momento, con conseguente possibile risarcimento del danno non patrimoniale e anche patrimoniale, ove vengano dimostrati riflessi negativi in termini strettamente economici.