Con la sentenza n. 15763 del 7 giugno 2021, la Corte di cassazione è tornata a pronunciarsi sulla questione del "tempo tuta", ovvero il tempo impiegato dai dipendenti per effettuare le operazioni di vestizione/svestizione degli indumenti da lavoro.
Nel caso oggetto di controversia, la Corte di appello di Roma, in riforma della pronuncia di primo grado, aveva respinto la domanda formulata dai dipendenti di un'azienda per vedersi riconoscere la retribuzione del tempo impiegato a indossare e dismettere gli abiti da lavoro e gli altri dispositivi di protezione individuale. Ciò in quanto dall'accertamento di fatto svolto era emerso che la società non imponeva ai propri lavoratori modalità di vestizione e svestizione. Pertanto, secondo la Corte territoriale, avendo la stessa rinunciato «a esercitare il proprio potere di eterodirezione in relazione a tale attività, nessun obbligo retributivo derivante da corrispettività gravava su di essa riguardo al c.d. tempo tuta».
La Corte di cassazione ha confermato l'infondatezza della pretesa economica avanzata dai lavoratori proprio alla luce dell'accertamento effettuato nella fase di merito pienamente aderente, a suo parere, all'orientamento giurisprudenziale consolidatosi in sede di legittimità sul tema della diretta onerosità del tempo tuta a carico del datore di lavoro. In particolare, la Cassazione ha rimarcato che, nel rapporto di lavoro subordinato, il tempo necessario a indossare l'abbigliamento di servizio costituisce tempo di lavoro «soltanto ove qualificato da eterodirezione, in difetto della quale l'attività di vestizione rientra nella diligenza preparatoria inclusa nell'obbligazione principale del lavoratore e non dà titolo ad autonomo corrispettivo (così Cassazione n. 9215 del 2016 e, con espresso riferimento alla Direttiva comunitaria n. 2003/88/CE, invocata da parte ricorrente nel terzo motivo, cfr. Cass. n. 1352 del 2016)».
E, dalla verifica effettuata in appello, era emersa chiaramente l'assenza dell'elemento costitutivo dell'obbligazione retributiva rivendicata dai lavoratori, ossia l'esercizio datoriale del potere di eterodirezione riguardo al tempo, al modo e al luogo della vestizione e della svestizione. I ricorrenti, ha sottolineato la Cassazione, non avevano alcun obbligo di indossare gli abiti da lavoro negli appositi spogliatoi ubicati all'interno dei locali aziendali, ben potendo gli stessi recarsi al lavoro e far ritorno a casa indossandoli. Inoltre, la società offriva sì servizi quali spogliatoio, doccia e lavanderia, in merito all'utilizzo dei quali ai lavoratori stessi era lasciata totale libertà di scelta.
La Corte di Cassazione ha, quindi, rigettato il ricorso, condannando i ricorrenti alle spese del giudizio in favore della società datrice di lavoro.
In sostanza la Corte di Cassazione con la sentenza in esame ha confermato quell'orientamento giurisprudenziale secondo il quale le operazioni di vestizione/svestizione possono essere considerate orario di lavoro e, in quanto tale retribuite, solo se il lavoratore richiedente prova l'eterodirezione datoriale. Altrimenti tali operazioni si configurano come meri atti di diligenza preparatoria all'esecuzione della prestazione lavorativa in relazione alle quali il lavoratore nulla può pretendere.