La direttiva interna dell’Agenzia delle entrate richiama la necessità di comportamenti uniformi nella gestione delle pratiche di voluntary disclosure anche per ciò che riguarda i prelevamenti. Opportunamente il documento ricorda la centralità di quanto dichiarato dal contribuente. La direttiva delle entrate ricorda anche che nei confronti delle persone fisiche non esercenti attività d’impresa (e nemmeno nei confronti dei professionisti, Corte Costituzionale 228/2014, e dei soci di società che detengano quote non in regime di impresa), non risulta applicabile la presunzione di reddività, relativa ai prelevamenti, di cui all’articolo 32, D.P.R. 600/1973 e che la contestazione della mancata indicazione di ulteriori attività rispetto a quelle indicate dal contribuente deve essere provata dall’ufficio e non automaticamente dedotta dalla omessa specificazione circa la destinazione del prelevamento. Del resto, non si possono ribaltare sul contribuente prove diaboliche o addirittura impossibili da fornire. In sostanza, è legittimo che l’ufficio chieda spiegazioni rispetto ai prelevamenti, ma dovrebbe essere chiaro: che tali chiarimenti non possono riguardare importi non rilevanti (la direttiva parla di “somme consistenti”, che, nella “ricca” disclosure, fa pensare almeno a importi di decine di migliaia di euro) e situazioni “fisiologiche”; che il prelevamento non rappresenta mai reddito.