La normativa in tema di transfer pricing (articolo 110, commi 2 e 7, Tuir) è tesa a evitare il trasferimento surrettizio di utili da uno Stato all’altro. Il criterio cardine, per la valutazione dei prezzi di trasferimento tra le imprese associate di un gruppo multinazionale, è costituito dal principio di libera concorrenza, fondato cioè sul regime che si instaura tra imprese “indipendenti”. Questo principio è posto fiscalmente in diretta correlazione con la definizione del valore normale dei beni o dei servizi, ai sensi dell’articolo 9, Tuir (richiamato dall’articolo 110), secondo cui questo valore è dato dal «prezzo o corrispettivo mediamente praticato per i beni e servizi della stessa specie o similari, in condizioni di libera concorrenza e al medesimo stadio di commercializzazione, nel tempo e nel luogo in cui i beni o i servizi sono stati acquisiti o prestati e, in mancanza, nel tempo e nel luogo più prossimi».
La Suprema Corte ha già sancito (Cassazione n. 17955/2013) che possono esserci eccezioni: in linea generale, considerazioni di strategia complessiva possono indurre le imprese a compiere operazioni di per se stesse antieconomiche, in vista e in funzione di altri benefici. Tuttavia, è necessario che queste operazioni rispondano a sostenibili criteri di logica economica. Il concetto di valore normale, in ogni caso, non va applicato acriticamente, ma va adattato con attenzione alle transazioni oggetto di verifica fiscale. Nel caso del transfer price questo adattamento deve avvenire non solo applicando il metodo valutativo ritenuto più idoneo, ma anche trovando, quale base di partenza, dei comparables adeguati al caso concreto. Queste sono in sintesi le conclusioni cui è recentemente pervenuta la CTP di Milano con la sentenza n. 2028/22/16 depositata lo scorso 3 marzo.