Per gli errori nell’applicazione del reverse charge è il momento di chiarire alcuni dubbi. Un punto fermo è l’ambito applicativo delle disposizioni. Il comma 9-bis dell’articolo 6, D.Lgs. 471/1997 fa riferimento alle violazioni relative al reverse interno (incluse le prestazioni d’installazione impianti, completamento, eccetera, relative a edifici) ed esterno (operazioni rilevanti in Italia effettuate da soggetti esteri) di cui all’articolo 17, D.P.R. 633/1972, così come all’inversione contabile per rottami e simili, agricoltura e operazioni intracomunitarie. Dimenticarsi di integrare una fattura per un acquisto intraUe (o di eseguire la doppia annotazione nei registri Iva), pertanto, costerà da 500 a 20 mila euro oppure un importo variabile dal 5 al 10% dell’imponibile (minimo mille euro), se si omette la registrazione in contabilità generale. A queste sanzioni si somma quella del 90% dell’imposta indetraibile se l’omissione riguarda operazioni per cui la detrazione non poteva essere esercitata, oltre a quella, dal 90 al 180%, per la (conseguente) infedele dichiarazione. Se, invece, il fornitore ha applicato l’Iva anziché il reverse, si rientra nel comma 9-bis.1 (la situazione contraria è regolata in modo speculare dal successivo comma 9-bis.2). In tal caso, se l’imposta è stata erroneamente “assolta” dal cedente/prestatore, il cessionario/committente è punito con la sanzione fissa da 250 a 10 mila euro, ma può detrarre l’Iva (e non deve assolverla). Niente sanzioni, invece, se si applica il reverse charge evidenziando a debito e a credito l’Iva per un’operazione esente, non imponibile o non soggetta a imposta. Lo prevede il comma 9 bis.3 che consente anche di recuperare il tributo eventualmente non detratto.