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Dequalificazione: gli effetti dannosi per il lavoratore possono essere dimostrati con prove «indirette»

Pubblicato il 17 ottobre 2016 Il Sole 24 Ore ; Italia Oggi

Il danno da dequalificazione professionale non è in re ipsa , ma richiede di essere provato dal lavoratore che, a seguito del demansionamento, lamenta di aver subito un pregiudizio risarcibile. Tuttavia, tale danno può essere ricavato in via presuntiva o facendo ricorso a massime di comune esperienza.


La Corte di Cassazione ha confermato questo principio con la sentenza 20677/2016, nella quale ha precisato che il periodo non breve di durata della dequalificazione (tre anni e mezzo, nello specifico caso) e la mortificazione sul piano professionale e dell’immagine che ne sono derivati, unitamente alla marginalizzazione del dipendente dal contesto ambientale e al conseguente allontanamento dai settori aziendali più strategici, sono indici sufficienti e sintomatici dai quali dedurre presuntivamente la produzione di un danno risarcibile sul piano economico.


Il caso sul quale è stata chiamata a pronunciarsi la Cassazione è relativo alla controversia del dipendente di un istituto bancario che, sul presupposto della adibizione a mansioni peggiorative rispetto a quelle di sua competenza, si è rivolto al tribunale per richiedere, oltre alla reintegrazione in mansioni corrispondenti alla sua qualifica, il risarcimento del danno professionale e di quello biologico.

 

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