Con la sentenza 7166 depositata il 21 marzo 2017 la Suprema corte è nuovamente intervenuta sul tema del licenziamento per giusta causa, sottolineando la necessità che il giudice effettui un doppio controllo.
Nel caso in esame, la Corte di Appello di Potenza, riformando la pronuncia emessa dal Tribunale di Matera, ha dichiarato l'illegittimità del provvedimento espulsivo comminato a un dipendente che «nella sua qualità di tecnico reperibile e responsabile dell'emergenza, si era rifiutato di attivarsi a fronte di due successive sollecitazioni di intervento per un calo di pressione e una fuga di gas», disponendone la reintegrazione in base all'articolo 18 dello statuto dei lavoratori nella versione antecedente la riforma Fornero.
La Corte di merito, infatti, ha ritenuto che l'addebito contestato al lavoratore rientrasse nel novero di quelli che l'articolo 55 del contratto collettivo di lavoro del settore energia e petrolio punisce, in assenza di recidiva, con una sanzione meramente conservativa.
Nel giudizio di legittimità la Suprema corte ha ritenuto priva di pregio la motivazione addotta dalla Corte d'appello, avendo quest'ultima «tralasciato di esaminare quella stessa parte della clausola contrattuale che prevede, in alternativa alla recidiva, anche il caso di particolare gravità…come passibile di sanzione espulsiva».
La Cassazione, con un approccio metodologico condivisibile, descrive il percorso logico-giuridico da intraprendere al fine di verificare la sussistenza o meno della giusta causa di recesso.
In primo luogo - precisa la Corte - è dovere del giudice esaminare la rispondenza delle pattuizioni collettive disciplinari alla previsione contenuta nell'articolo 2106 del codice civile , rilevando la nullità di quelle clausole contrattuali che prevedono come giusta causa di licenziamento condotte che, per loro natura, sono assoggettabili solo a eventuali sanzioni conservative.
In secondo luogo, qualora la verifica effettuata in astratto consenta, da un lato, di escludere la nullità delle clausole del contratto collettivo e, dall'altro, di ritenere che l'infrazione disciplinare sia astrattamente sussumibile in una giusta causa, il compito del giudice sarà quello di apprezzare in concreto la gravità degli addebiti.
Richiamando il proprio consolidato orientamento, la Cassazione rammenta che la valutazione concreta circa la gravità del fatto contestato e il conseguente giudizio di proporzionalità tra lo stesso e la sanzione espulsiva deve essere condotto attraverso un'analisi che tenga in debita considerazione i profili oggettivi e soggettivi, nonché la futura affidabilità del dipendente circa la prestazione dedotta in contratto.
Sulla scorta di tali principi, la Suprema corte – in accoglimento del ricorso promosso dalla società – ha cassato con rinvio la sentenza impugnata, non avendo la Corte d'appello effettuato il duplice vaglio, afferente, in primo luogo, la verifica che la condotta addebitata al dipendente possa in astratto rientrare nella previsione contrattuale sanzionabile con il licenziamento per giusta causa e, in secondo luogo, l'accertamento concreto circa la gravità della condotta.