Con la sentenza n. 21328/17 la Corte di cassazione torna a pronunciarsi in tema di mobbing, confermando il proprio costante orientamento secondo cui grava sul lavoratore l'onere di provare l'intento persecutorio del datore di lavoro.
Nel caso in esame, il dipendente ha proposto ricorso nei confronti dell'Azienda Sanitaria Locale per la quale lavorava, lamentando di essere stato privato per oltre un decennio del suo ruolo di primario e isolato in un reparto fantasma. Nella prospettazione del ricorrente, lo svuotamento pressoché totale delle sue mansioni, oltre a costituire un grave demansionamento, avrebbe configurato una condotta mobbizzante produttiva di un danno biologico, con conseguente diritto alla tutela risarcitoria.
La Corte d'appello di Lecce, in riforma della sentenza di primo grado – che aveva dichiarato nullo il ricorso in quanto privo degli elementi essenziali richiesti dall'articolo 414 del Codice di procedura civile – ha rigettato nel merito la domanda, evidenziando come il lavoratore avesse omesso di allegare e provare che i comportamenti tenuti dalla Asl fossero collegati da un «programmato disegno» avente lo «scopo di mortificarne la personalità e la professionalità».
La Cassazione ha ritenuto la decisione della Corte territoriale correttamente motivata. Tale pronuncia, infatti, si colloca nel solco dell'indirizzo, più volte fatto proprio dalla giurisprudenza di legittimità, secondo cui affinché si configuri una fattispecie di mobbing non è sufficiente che il datore di lavoro abbia posto in essere (direttamente o per mezzo di propri dipendenti) una serie di atti vessatori, per quanto reiterati e sistematici. Occorre infatti che venga direttamente allegato e dimostrato in giudizio l'elemento soggettivo caratterizzante il mobbing, vale a dire «l'intento persecutorio unificante di tutti i comportamenti lesivi».
In altre parole, la strategia vessatoria, ossia il preciso scopo di emarginare ed estromettere il lavoratore dalla vita aziendale, costituisce un elemento essenziale del mobbing; essa permette, da un lato, di distinguere questa fattispecie da atti illegittimi di diversa natura (come, nel caso di specie, un mero demansionamento ex articolo 2103 del Codice civile), dall'altro, di qualificare come mobbizzante una serie di comportamenti che sarebbero, altrimenti, leciti.
Tale orientamento, avvallato dalla decisione in commento, pur scontando una certa preoccupazione della magistratura rispetto al dilagare di richieste risarcitorie pretestuose, presenta alcuni indubbi pregi. Consente infatti di escludere dall'orbita della fattispecie del mobbing ipotesi di mere divergenze o conflitti tra le parti del rapporto di lavoro; d'altro canto, imponendo il riscontro dell'elemento psicologico, elimina il rischio di una responsabilità oggettiva in capo al datore di lavoro.
Tutto bene, dunque? Non proprio. Se è vero che il mobbing deve tradizionalmente inquadrarsi nell'alveo della responsabilità contrattuale per violazione dell'obbligo di protezione di cui all'articolo 2087 del Codice civile, sorge inevitabile qualche dubbio circa la corretta ripartizione, da parte della pronuncia in esame, degli oneri probatori tra lavoratore e datore di lavoro.
È infatti noto come, in tema di responsabilità contrattuale, operi una parziale inversione dell'onere della prova. Applicata al caso di specie, quest'ultima consentirebbe al lavoratore di limitarsi a dimostrare il solo inadempimento, e cioè il comportamento mobbizzante (inteso qui quale condotta meramente oggettiva), oltre al nesso causale tra quest'ultimo e il danno patito, mentre graverebbe sul datore di lavoro dare prova dell'assenza di colpa.
Senonché, l'orientamento giurisprudenziale sopra richiamato finisce per considerare l'elemento soggettivo quale requisito fondamentale della fattispecie del mobbing, ponendo in definitiva sul dipendente l'onere di dimostrare l'esistenza di un disegno doloso. Tale squilibrio potrebbe essere mitigato consentendo al lavoratore di provare l'imputabilità della condotta lesiva tramite presunzioni, tenuto conto dell'oggettiva idoneità persecutoria del comportamento del datore di lavoro; il quale, a quel punto, resterebbe onerato della relativa prova contraria.