Con l’ordinanza n. 24766/17 depositata lo scorso 19 ottobre, la Sezione Lavoro della Cassazione ha rimesso al primo Presidente, per l’eventuale assegnazione alle Sezioni Unite, il ricorso n. 26171/15 sul regime giuridico del licenziamento intimato in costanza di malattia del lavoratore nel periodo di garanzia della conservazione del posto.
La questione, di sicura rilevanza pratica, ha dato i natali ad un annoso contrasto interpretativo in seno alla stessa Cassazione. All’origine del contrasto vi è quella che, a tutti gli effetti, appare una lacuna legislativa non colmata nemmeno in occasione degli interventi di riforma che, nel 2012 e 2015, hanno ridisegnato il quadro sanzionatorio applicabile ai licenziamenti.
Se, infatti, l’articolo 2110 del Codice civile dispone che in caso di malattia del lavoratore l’imprenditore ha diritto di recedere dal contratto solamente una volta «decorso il periodo stabilito dalla legge, dagli usi o secondo equità», la legge tace in ordine alla sorte del licenziamento intimato prima che detto periodo (cosiddetto di comporto) sia effettivamente trascorso.
E così, secondo l’orientamento maggioritario, tale recesso sarebbe da considerarsi pur sempre valido - seppure inefficace ai fini della risoluzione del rapporto - con prosecuzione quindi del sinallagma tra le parti fino al venir meno della situazione ostativa. Dal principio di conservazione degli atti giuridici (articolo 1367 del Codice civile), applicabile al recesso datoriale in virtù del rinvio operato agli atti unilaterali dall’articolo 1324 del Codice civile, discende infatti che l’inosservanza del divieto di licenziamento non determina di per sé la nullità della dichiarazione di recesso, ma ne implica solamente la temporanea inefficacia (ex plurimis, Cassazione n. 23063 del 2013; 7098 del 1990; 4394 del 1988).
Secondo altra parte della giurisprudenza, invece, il recesso in questione sarebbe affetto da radicale nullità: e tale più severa conclusione muove dalla considerazione secondo la quale solo l’avvenuto superamento del periodo di comporto conferisce al datore di lavoro il diritto di recedere dal contratto, sicché «il potere datoriale di risoluzione del rapporto, fondato sul superamento del periodo di comporto, non [può] legittimamente esercitarsi se non in presenza del completo realizzarsi di questo, non essendo logicamente configurabile un diritto datoriale di recesso anteriore alla realizzarsi della relativa situazione giustificativa» (Cass. 24525 del 2014; 12031 del 1999; 9869 del 1991), con conseguente applicazione della sanzione reintegratoria prevista dall’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori anche nella versione “post Fornero”, nonché dal Jobs Act introdotto nel 2015.
Se, come auspicabile, la questione verrà effettivamente sottoposta alle Sezioni Unite, spetterà a quest’ultime rendere ragione di tale pluralità di vedute.