Grazie alla legge sulla concorrenza (la 124/2017), le società tra professionisti previste dall’articolo 10, L. 183/2011 sono tornate a destare l’interesse di chi esercita professioni protette. Tuttavia, la disciplina presenta alcune lacune dovute alla carenza di coordinamento tra codice civile e i regolamenti degli Ordini di appartenenza. Le uniche deroghe al codice civile sono previste dall’articolo 10, L. 183/2011 e dal D.M. 34/2013, secondo cui l’atto costitutivo di una Società tra professionisti (Stp) deve prevedere necessariamente: l’indicazione di Stp nella denominazione sociale; le modalità di esclusione del socio che è stato cancellato dal proprio albo; la stipula di una polizza assicurativa; le modalità affinché le prestazioni siano eseguite unicamente dai soci professionisti; l’esercizio in via esclusiva dell’attività professionale dei soci; lo status di socio sia rivestito da soggetti abilitati allo svolgimento di attività protette (soci professionisti) o da altri soggetti per prestazioni tecniche o con finalità di investimento (soci non professionisti). Per il resto, è il principio di esclusività dell’attività svolta a destare maggiori perplessità. Infatti, poiché l’oggetto sociale può essere solo l’esercizio di attività protette - essendo escluse quelle imprenditoriali o non protette, le quali possono essere strumentali e accessorie - sembrerebbe che il reddito prodotto dalla società sia di lavoro autonomo. La direzione centrale Normativa dell’Agenzia delle entrate - in risposta a una consulenza giuridica (protocollo n. 131773/2014) - oltre a supplire il vuoto normativo fiscale, ha sancito, senza ammettere deroghe, che il reddito di una Stp è di impresa, in quanto ai fini di una qualificazione «è determinante il fatto di operare in una veste giuridica societaria». In ultima analisi, la classificazione come reddito di impresa potrebbe aprire il fallimento alle Stp, ma il Tribunale di Forlì nel decreto 61/2017 dello scorso 25 maggio sembrerebbe pervenire, per analogia, ad una diversa conclusione.