Nel giudizio per l’impugnazione del licenziamento per giustificato motivo oggettivo, il datore di lavoro deve dimostrare l’effettività delle ragioni alla base del recesso e l’assenza di posizioni alternative in cui riassorbire il lavoratore che si appresta a licenziare. Questo per evitare la dichiarazione dell’illegittimità del recesso. È il cosiddetto obbligo di repêchage, non presente nel diritto positivo ma creato dalla giurisprudenza, che ne ha definito caratteristiche e limiti sotto diversi profili. Una recente sentenza della Corte d’appello di Milano (n. 131/2017) ha stabilito che nei licenziamenti collettivi non esiste per il datore di lavoro alcun obbligo di repêchage, e l’eventuale impegno assunto in sede di accordo sindacale, per favorire la ricollocazione dei lavoratori coinvolti dalla procedura, ha «natura meramente contrattuale»: la sua eventuale violazione, dunque, non costituirà una infrazione dei criteri di scelta o della procedura. Ma quali sono i confini dell’obbligo di repêchage?
Vediamo la linea tracciata dai giudici sul perimetro di applicazione, sulle eventuali nuove mansioni da assegnare al lavoratore e sull’obbligo formativo.
Sull’ambito nel quale verificare la possibilità di repêchage, l’orientamento maggioritario afferma che l’obbligo va circoscritto all’organico del datore di lavoro, non potendosi estendere a società collegate dello stesso gruppo (Corte di Appello di Milano, sezione lavoro, sentenza del 24 ottobre 2013). Solo nel caso di un gruppo societario qualificabile come unico centro d’imputazione del rapporto di lavoro, la giurisprudenza appare orientata nel senso di estendere l’obbligo di repêchage a tutte le imprese del gruppo (Cassazione, sezione lavoro, sentenza 13606 del 30 maggio 2017 ; Tribunale di Pescara, sezione lavoro, sentenza 694 dell’11 luglio 2016).
Il secondo e più discusso profilo esaminato dalla giurisprudenza è quello delle mansioni per le quali va verificata la possibilità di riassorbire il dipendente.
Originariamente, i giudici limitavano questo controllo alle sole mansioni equivalenti, coerentemente con la vecchia formulazione dell’articolo 2103 del Codice civile , secondo cui il datore di lavoro doveva adibire il prestatore alle mansioni per le quali era stato assunto o a quelle corrispondenti alla categoria superiore successivamente acquisita o a mansioni equivalenti alle ultime effettivamente svolte.
Tuttavia, nonostante questa previsione normativa, in un’ottica di tutela del lavoratore sempre crescente, la giurisprudenza aveva iniziato a ritenere che il datore di lavoro dovesse verificare la possibilità di impiegare il lavoratore non solo in mansioni equivalenti ma anche inferiori (Tribunale di Trapani, sezione lavoro, sentenza del 23 novembre 2007). Questa estensione dell’obbligo però era mitigata dalla giurisprudenza che subordinava l’offerta di mansioni inferiori al fatto che rientrassero nel bagaglio professionale del lavoratore e fossero compatibili con l’assetto organizzativo aziendale insindacabilmente stabilito dall’imprenditore (Cassazione, sezione lavoro, sentenza 4509 dell’8 marzo 2016).
Con la modifica dell’articolo 2103 del Codice civile tramite il Dlgs 81/2015 (il Codice dei contratti varato in attuazione del Jobs act), in vigore dal 25 giugno 2015, è stata superata la nozione di “equivalenza” delle mansioni: il nuovo articolo 2103 prevede che il lavoratore possa essere adibito ad altre mansioni purché riconducibili allo stesso livello e categoria legale d’inquadramento delle ultime effettivamente svolte.
Questa riscrittura ha indotto parte della giurisprudenza a ridelineare i contorni del repêchage, rendendolo più rigoroso. Secondo il Tribunale di Milano, ad esempio, l’indagine del datore sull’esistenza di posizioni alternative alle quali assegnare il lavoratore deve estendersi a tutte le mansioni disponibili all’interno dello stesso livello di inquadramento del lavoratore licenziato senza che il lavoratore possa lamentare che le nuove attività abbiano contenuto peggiorativo o non rientrino nel suo bagaglio di competenze professionali (Tribunale di Milano, sezione lavoro, sentenza 3370 del 16 dicembre 2016 ).
Questa visione estensiva della portata del repêchage è mitigata da sentenze successive, secondo cui l’assolvimento di tale obbligo non comporta, a carico del datore di lavoro, l’onere di formare il dipendente. Il Tribunale di Roma ha precisato che «dopo l’entrata in vigore del Dlgs 81/2015, che ha introdotto il nuovo testo dell’art. 2103 del Codice civile, l’aggravamento dell’onere gravante sul datore di lavoro in ordine all’impossibilità di repêchage non può ritenersi assoluto: il datore di lavoro sarà tenuto ad allegare e dimostrare la mancata disponibilità di posizioni corrispondenti allo stesso livello e categoria di inquadramento del lavoratore, purché si tratti però di mansioni libere e che non necessitino di idonea formazione, in quanto l’obbligo formativo è stato configurato nel nuovo testo dell’articolo 2103 del Codice civile come conseguenza della scelta unilaterale del datore di lavoro» (Tribunale di Roma, sezione lavoro, sentenza del 24 luglio 2017).