Sotto tiro l’amministratore di fatto della società: sempre più frequentemente, infatti, al termine del controllo sono contestate violazioni non solo a coloro che ufficialmente sono gli amministratori dell’impresa ma anche a chi, all’esito delle indagini, risulta il reale gestore. Il Legislatore, recependo la giurisprudenza maggioritaria, ha reso irrilevante la denominazione formale dell’incarico eventualmente rivestito, rispetto al contenuto reale dei poteri esercitati. Il concetto di potere è riferito al ruolo svolto da chi autonomamente può indirizzare la società nelle proprie scelte, anche in concorso con altri soggetti di diritto. L’amministratore di fatto quindi non deve necessariamente esercitare le sue funzioni in via esclusiva: egli può anche affiancare o collaborare con l’amministratore di diritto. Ai fini della qualificazione dell’amministratore di fatto, quindi, è sufficiente lo svolgimento di alcune attività tipiche dell’incarico. È necessaria però la «continuatività e significatività» per poter estendere la responsabilità a soggetti che non ricoprono formalmente alcuna qualifica. Secondo la giurisprudenza, non occorre l’esercizio di “tutti” i poteri del soggetto di fatto, ma di un’apprezzabile attività di gestione, condotta in maniera non episodica od occasionale. I due requisiti (continuità e significatività) devono sussistere contemporaneamente: atti soltanto episodici escludono la responsabilità.
In ambito tributario, l’amministrazione di fatto comporta conseguenze sotto il profilo penale ed amministrativo. Con riguardo alla responsabilità penale, la Cassazione anche recentemente (sentenza n. 1590/2018), ha fornito importanti indicazioni. È stato così precisato che l’amministratore di fatto risponde del delitto tributario, quale autore principale, in quanto titolare effettivo della gestione sociale: è l’unico infatti nelle condizioni di poter compiere l’azione dovuta.