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A fronte di molestie, tutela dell’identità da valutare per caso

Pubblicato il 27 marzo 2018 Il Sole 24 Ore; Italia Oggi

Il datore di lavoro che intenda contestare a un proprio dipendente di aver posto in essere molestie a danno di colleghe deve seguire il procedimento dettato dall'articolo 7 dello statuto dei lavoratori. E dunque dovrà specificare il comportamento nella contestazione, e assegnare il termine per le difese e le repliche dell'accusato, per poi assumere gli eventuali provvedimenti del caso, non escluso quello del licenziamento.


Ma è obbligatorio, per il datore di lavoro che contesta, indicare nome e cognome della collega o delle colleghe molestate (o oggetto di altri comportamenti illeciti o inappropriati)? Il caso era stato trattato dalla Corte di appello di Milano che aveva evidenziato come il datore di lavoro non avesse indicato nome e cognome delle dipendenti molestate, salvo una, per la quale aveva indicato le sole iniziali. E aveva sancito che ciò inficiava la contestazione disciplinare, per lesione del requisito della specificità e del diritto di difesa dell'incolpato.


La Corte di cassazione, con la sentenza 6889/2018, ha cassato il provvedimento della Corte milanese. Secondo la Cassazione, i giudici avrebbero dovuto verificare, «al di fuori di schemi rigidi e prestabiliti», se in concreto, malgrado la mancata indicazione dei nomi, la descrizione in dettaglio delle condotte consentiva comunque la difesa e non generava alcuna incertezza circa l'individuazione dei comportamenti imputati.


La pronuncia evita dunque di assumere una posizione assoluta (necessità di indicare sempre i nomi) e propende per una soluzione “caso per caso” (e cioè per valutare i riflessi concreti sul diritto di difesa della mancata indicazione dei nomi). Tanta cautela ben si spiega anche alla luce del fatto che il coinvolgimento delle persone molestate nei procedimenti disciplinari e giudiziali può dar luogo a criticità.

La sentenza 6889/2018 richiama il proprio precedente costituito dalla 18279/2010. Quest'ultima sentenza, ben argomentata, era relativa al caso di un dipendente che aveva tentato di «baciare o toccare una collega». Anche in tale occasione il datore di lavoro non aveva indicato il nome nella contestazione; ma in questo caso la Corte di cassazione aveva saldamente sposato la tesi più garantistica, ritenendo leso il diritto di difesa dell'incolpato (rimarcando la perdita della possibilità di «contrapporre circostanze di tempo e di luogo incompatibili con la denuncia della lavoratrice importunata»).


La sentenza si faceva carico anche dei profili di privacy, richiamando il principio della «gerarchia mobile», in base al quale il diritto di difesa indicato all'articolo 24 della Costituzione (anche ai fini della difesa del posto di lavoro) non può essere compresso o eccessivamente limitato da considerazioni privacy (anche tenuto conto che la riservatezza della sede giudiziaria è tutelata).


Il tema appare dunque aperto, senza dimenticare che la legge 179/2017 sul whistleblowing contiene nuove specifiche indicazioni sulla tutela della riservatezza del dipendente pubblico o privato che segnala determinate condotte illecite.

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