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Valido, ma non sempre, il licenziamento per espressioni offensive verso il datore di lavoro su social network

Pubblicato il 11 maggio 2018 Il Sole 24 Ore; Italia Oggi

La Sezione Lavoro della Corte di Cassazione, con la Sentenza n. 10280/2018, è tornata a occuparsi del licenziamento intimato per l'utilizzo di affermazioni denigratorie del datore di lavoro e dei suoi rappresentanti tramite FaceBook.


La pronuncia riesamina, per i profili di legittimità, l'impugnazione del licenziamento promossa da una lavoratrice licenziata per aver espresso, via social, disprezzo verso il proprio posto di lavoro e la proprietà aziendale, adottando linguaggio scurrile. Licenziamento la cui legittimità era però già stata confermata in sede di merito, sia in primo grado (Tribunale di Forlì) che in Corte d'Appello (Bologna).


La Corte di Cassazione ha valutato come esenti da vizi le decisioni di merito, integrando la condotta imputata alla lavoratrice gli estremi della diffamazione e non potendo incidere fattori esterni sulla gravità della condotta (principalmente, presunte condizioni di stress lavoro-correlato della lavoratrice).


La Corte rileva che, relativamente all'elemento soggettivo, la condotta della ricorrente – pur non volendo ritenere sussistente l'elemento volitivo del dolo – può sicuramente ricondursi nell'alveo di un comportamento caratterizzato da colpa grave e, dunque, idoneo a determinare una lesione del vincolo fiduciario.

Analogamente, in relazione all'elemento oggettivo, la Suprema Corte sottolinea che “la diffusione di un messaggio diffamatorio attraverso l'uso di una bacheca facebook integra un'ipotesi di diffamazione, per la potenziale capacità di raggiungere un numero indeterminato di persone”, risultando così suscettibile di ledere, irrimediabilmente, il vincolo fiduciario posto alla base del rapporto di lavoro.


La sentenza in commento contribuisce a consolidare l'orientamento giurisprudenziale a favore della legittimità dei licenziamenti intimati per l'improprio utilizzo dei social network per criticare il datore di lavoro. In proposito, recenti sono due autorevoli pronunce di merito, rispettivamente del Tribunale di Milano e di Busto Arsizio, emesse in fattispecie simili, anche se non del tutto analoghe, che però sono giunte a valutazioni difformi circa la gravità della condotta.


Il Tribunale di Milano ha infatti valutato insufficiente a giustificare il licenziamento (seppure respingendo la domanda di reintegrazione e disponendo la sola tutela risarcitoria prevista dall'art. 18, co. 5, L. 300/70), la condotta del lavoratore appartenente alla RSA che aveva pubblicato, in un gruppo privato su FaceBook partecipato da altri colleghi, affermazioni inneggianti al licenziamento di dirigenti aziendali, con l'ausilio di epiteti offensivi (“dirigenti in uscita… nemmeno un bastardo”). Ciò, va detto, dando anche rilievo al fatto che le affermazioni ingiuriose erano state espresse in un contesto ristretto (ovverosia il gruppo privato).


Di diverso avviso, invece, il Tribunale di Busto Arsizio, che ha ritenuto che i tweet denigratori pubblicati dal lavoratore potessero costituire una fattispecie di giustificato motivo soggettivo di licenziamento (nel caso di specie, la condotta consisteva in tweet manifestanti “atteggiamento di disprezzo verso l'azienda e nei confronti dei suoi amministratori, rappresentanti e potenziali partner commerciali”).


I precedenti in materia, anche diversi da quelli citati, consentono di concludere che non può attribuirsi automaticamente la lesione del vincolo fiduciario alle parole di critica (anche denigratorie) espresse da un lavoratore sui social network, essendo richiesta un'attenta analisi delle circostanze di modo e di “luogo” (anche virtuale) in cui esse sono espresse, per coglierne l'effettiva portata.

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