Con la sentenza 13667/2018 , la Corte di cassazione ricorda che la contestazione disciplinare posta alla base di un licenziamento deve essere specifica.
Un dirigente, licenziato per giusta causa per violazione del regime delle incompatibilità e di cumulo di impieghi e incarichi, ha impugnato il provvedimento davanti al tribunale di Roma deducendo la «mancanza di contestazione disciplinare» ma la sua impugnazione è stata rigettata; la Corte di appello di Roma ha invece accolto l'appello del lavoratore.
Avverso la sentenza della Corte di appello il datore di lavoro ha proposto ricorso per revocazione (probabilmente sulla base di un errore di fatto risultante dagli atti e dai documenti di causa a mente dell'articolo 395, numero 4, del codice di procedura civile) e la medesima Corte di appello, pur ritenendo ammissibile tale ricorso, ha nuovamente accolto nel merito l'appello del dirigente e dichiarato l'illegittimità del licenziamento, ritenendo che fosse stato violato l'articolo 18 del Ccnl dirigenti-enti di ricerca non avendo il lavoratore «ricevuto informazione scritta e specifica dell'infrazione addebitata».
La Corte territoriale, in particolare, ha fondato la propria decisione sulla scorta del tenore letterale della comunicazione inviata al lavoratore il 28 luglio 2004, nella quale l'azienda aveva reso noto al dirigente di aver ricevuto un esposto anonimo in cui si prospettava la violazione del regime delle incompatibilità e aveva invitato il lavoratore a fornire una «dichiarazione scritta pro veritate» attestante «l'inesistenza di attività libero professionale» e «l'inesistenza di rapporti di dipendenza o di collaborazione con soggetti pubblici o privati».
Ebbene, la Corte territoriale ha ricordato che l'articolo 18 del Ccnl applicato al rapporto di lavoro prevede che la comminazione del recesso deve essere preceduta dalla contestazione per iscritto degli addebiti in modo analogo a quanto previsto dall'articolo 7 dello statuto dei lavoratori. La lettera del 28 luglio 2004, tuttavia, «non conteneva in modo chiaro espressioni tali da far comprendere al destinatario l'intenzione datoriale di ritenere determinati fatti rilevanti dal punto di vista disciplinare» e inoltre la richiesta di fornire un «parere pro veritate» era, sotto il profilo della natura e del contenuto, evidentemente diversa da quella di rendere le giustificazioni nell'ambito della procedura disciplinare.
La Suprema corte ha confermato le statuizioni della Corte di appello e ha richiamato il proprio consolidato orientamento secondo cui «la contestazione dell'addebito ha lo scopo di consentire al lavoratore incolpato l'immediata difesa e deve, conseguentemente, rivestire il carattere della specificità senza l'osservanza di schemi prestabiliti o rigidi, purché siano fornite al lavoratore le indicazioni necessarie per individuare, nella sua materialità, il fatto o i fatti addebitati».
In effetti la finalità dichiarata nel documento consegnato al dirigente era stata più semplicemente quella di mostrare al destinatario l'anonimo ricevuto e chiedere notizie in ordine alla veridicità o meno delle informazioni in esso contenute, sì che il tenore di tale lettera era stato semmai quello di una pre-istruttoria atta a evitare proprio l'instaurazione di un procedimento disciplinare e, come tale, del tutto insufficiente ai fini individuati dall'articolo 7 dello statuto dei lavoratori.