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Pignoramento della retribuzione: prevale la tutela della certezza dei rapporti giuridici

Pubblicato il 16 novembre 2018 Il Sole 24 Ore; Italia oggi

Il Tribunale ordinario di Chieti, in funzione di giudice dell’esecuzione, con ordinanza del 14 febbraio 2017, ha sollevato questioni di legittimità costituzionale dell’art. 545, terzo e quarto comma, del codice di procedura civile in riferimento agli artt. 3 e 36 della Costituzione, nella parte in cui non prevedono l’impignorabilità assoluta di quella parte della retribuzione necessaria a garantire al lavoratore i mezzi indispensabili alle sue esigenze di vita, nonché per la disparità di trattamento che si verrebbe a determinare tra il pignoramento della retribuzione effettuato alla fonte presso il datore di lavoro e quello effettuato sulle stesse somme confluite sul conto corrente anteriormente al pignoramento.

Le questioni sono sorte nell’ambito di una procedura esecutiva promossa da Banca Coopcredito scarl, ai danni di un debitore della somma di euro 3.879,66, per compensi professionali, in seguito alla sua condanna a rifondere alla controparte le spese di giudizio come stabilito nella sentenza del Tribunale ordinario di Chieti. Il terzo pignorato, datore di lavoro dell’esecutato, ha reso dichiarazione positiva del suo obbligo di corrispondere al medesimo uno stipendio mensile di euro 538,00 (al netto delle ritenute previste dalla legge).

La Corte Costituzionale, nell’ordinanza n. 202 del 15 novembre 2018 ha ritenuto che le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 545, quarto comma, codice di procedura civile, sollevate da entrambi i rimettenti in riferimento agli artt. 3 e 36 della Corte Costituzionale, coincidono con quelle dichiarate non fondate dalla sentenza n. 248/2015 emessa dalla Corte.

In tale sentenza fu precisato, tra l’altro, che «la tutela della certezza dei rapporti giuridici, in quanto collegata agli strumenti di protezione del credito personale, non consente di negare in radice la pignorabilità degli emolumenti ma di attenuarla per particolari situazioni la cui individuazione è riservata alla discrezionalità del legislatore», mentre, in relazione al regime di impignorabilità delle pensioni, le argomentazioni del giudice rimettente non sono state condivise «in ragione della eterogeneità dei tertia comparationis rispetto alla disposizione impugnata» e che «[…] non può essere esteso ai crediti retributivi – come pretenderebbe il rimettente – quanto affermato da questa Corte nella sentenza n. 506 del 2002 con riguardo alla pignorabilità delle pensioni: proprio detta sentenza, esclude la estensibilità della fattispecie ai crediti di lavoro per la diversa configurazione della tutela prevista dall’art. 38 rispetto a quella dell’art. 36 della Costituzione.

In merito alla questione di legittimità costituzionale sollevata dal Tribunale ordinario di Trento in riferimento all’art. 3 della Costituzione, sotto il profilo della disparità di trattamento, la Corte ha già chiarito, nella stessa sentenza n. 248 del 2015, che la nuova disciplina introdotta dal D.L. n. 83/2015, concernente la pignorabilità delle somme confluite in conto corrente per effetto del pagamento pro rata di retribuzioni o pensioni, non può costituire un idoneo tertium comparationis, in quanto «ciò è inconfutabile indizio del fatto che – nell’ambito delle soluzioni costituzionalmente conformi, cioè caratterizzate dal bilanciamento tra le ragioni del credito e quelle del percettore di redditi di lavoro esigui – il legislatore sta esercitando la sua discrezionalità in modo articolato, valorizzando gli elementi peculiari delle singole situazioni giuridiche piuttosto che una riconduzione a parametri uniformi».

Alla luce di quanto evidenziato, la Corte dichiara dunque manifestamente infondate le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 545, quarto comma, del codice di procedura civile, in riferimento agli artt. 3 e 36 della Costituzione.


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