La minaccia grave perpetrata da un dipendente nei confronti di un proprio superiore gerarchico configura una violazione degli obblighi di collaborazione, fedeltà e subordinazione, ed è sufficiente a legittimare il licenziamento per giusta causa. Questo il principio di diritto affermato il 3 dicembre dalla Corte di Cassazione con la sentenza n. 31155/2018.
La vicenda processuale analizzata trae origine dal licenziamento disciplinare intimato a un dipendente il quale, al di fuori di un contesto di una conversazione animata, ma nell'ambito di una conflittualità di rapporti lavorativi, peraltro già riscontrata più volte dalle autorità giudiziarie, aveva minacciato di morte il proprio responsabile.
La Corte d'Appello di Roma, in riforma rispetto alla pronuncia emessa dal Tribunale capitolino nel 2016, aveva annullato il licenziamento, condannando la società a reintegrare il dipendente, ravvedendo l'insussistenza del motivo di licenziamento, considerato che le parole pronunciate dal lavoratore non presentavano le condizioni minime di serietà sufficienti per poter essere considerate come idonee ad interrompere il vincolo fiduciario tra le parti.
Avverso tale sentenza ricorreva per Cassazione il datore di lavoro, denunciando la violazione e falsa applicazione di legge, per aver la Corte errato nel ritenere il fatto insussistente. Ciò rilevato in particolare che dalle risultanze istruttorie era emerso che il fatto si era verificato e che, addirittura, era stato posto in essere in assenza di un clima esagitato e senza che il dipendente fosse stato in alcun modo istigato dal proprio superiore gerarchico.
Accogliendo le censure mosse dal datore di lavoro, la Corte di Cassazione ha evidenziato l'errata valutazione da parte dei giudici di merito del comportamento tenuto dal lavoratore, rilevato in particolare che lo stesso già in passato si era visto al centro di situazioni di conflittualità nei confronti di un proprio responsabile, accertate dalla autorità penali.
Alla luce di quanto sopra, la Suprema Corte ha affermato come al di là delle ipotesi chiaramente “ioci causa”, la minaccia grave determina in ogni caso nel soggetto passivo un turbamento emotivo in alcun modo tollerabile. Ciò ancor di più, precisa la Corte di legittimità, quando tale forma di intimidazione si estrinseca all'interno di un contesto lavorativo, avendo riguardo al fatto che la minaccia “rappresenta intrinsecamente una violazione degli obblighi di collaborazione, fedeltà e subordinazione, cui è tenuto il lavoratore nei confronti di un suo superiore”.