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Il consigliere del cda non è dipendente anche se è stato dirigente

Pubblicato il 17 gennaio 2019 Il Sole 24 Ore; Italia Oggi;

Con sentenza 1045/2018 la Corte di appello di Bologna ha chiarito quale possa essere la rilevanza della successione, senza soluzione di continuità e con lo svolgimento di compiti e attività sostanzialmente analoghi, tra un rapporto di lavoro subordinato dirigenziale e la carica di consigliere del Cda della medesima società, in una lite in cui il ricorrente ha chiesto di riqualificare quale lavoro subordinato anche l'attività svolta in qualità di consigliere d'amministrazione.

Un dirigente di un'azienda industriale (responsabile di produzione e dell'attività di ricerca e sviluppo) a fronte dell'acquisizione della società da parte di una nuova proprietà ha rassegnato le dimissioni dal rapporto di lavoro subordinato in essere e contestualmente ha accettato la nomina a consigliere del Cda della stessa, con delega di poteri inizialmente limitata allo sviluppo di nuovi prodotti ed in seguito estesa all'organizzazione dell'intera produzione. Dopo circa sei anni la carica di consigliere è cessata, poco dopo un ulteriore cambio di proprietà e la società, ancora senza soluzione di continuità, ha riassunto l'ex amministratore quale dirigente. Alla cessazione del rapporto di lavoro, avvenuta per giusta causa, il dirigente ha chiesto il riconoscimento della subordinazione del rapporto intercorso anche durante il periodo in cui egli aveva rivestito il ruolo di amministratore e, di conseguenza, la regolarizzazione della propria posizione contributiva oltre al risarcimento del preteso danno pensionistico.

La Corte di appello, in linea con il consolidato orientamento della giurisprudenza di legittimità, per il quale ogni attività umana economicamente rilevante può essere oggetto sia di rapporto di lavoro subordinato che di lavoro autonomo e in cui l'elemento distintivo tra i due è costituito dalla subordinazione, ha rilevato come nessuno degli indici propri di quest'ultima sia risultato sussistere durante il periodo in cui il ricorrente ha ricoperto la carica di componente del consiglio d'amministrazione, senza rapporto di lavoro subordinato. A nulla è valso, per il lavoratore, lamentare la continuità temporale tra i diversi rapporti e affermare la sostanziale analogia delle attività svolte.

La Corte, coerentemente con i principi desumibili dall'insegnamento della Cassazione, ha rilevato l'irrilevanza di tali circostanze, per quanto suggestive). I giudici hanno infatti focalizzato l'attenzione sulla sussistenza di criteri di qualificazione primari (assoggettamento al potere organizzativo e disciplinare) o sussidiari (quali la continuità e la durata del rapporto, le modalità di erogazione del compenso, l'orario), concludendo che mancavano prove dello svolgimento di una prestazione propria del lavoro dirigenziale (così come prove della eventuale natura fittizia della carica societaria, o di raggiri o costrizione nell'assunzione del nuovo incarico o nel rassegnare le dimissioni).

Con la medesima decisione, i giudici bolognesi hanno altresì rigettato l'ulteriore domanda di annullamento del licenziamento senza preavviso intimato al dirigente, per omessa corretta gestione dell'attività di dismissione dei beni aziendali, connessa alla chiusura di uno degli stabilimenti dell'azienda. Con riferimento a tale parte, l'interesse della sentenza consiste nell'aver chiarito che costituisce giusta causa di recesso il comportamento consistente nella mancata documentazione della destinazione finale dei beni aziendali da dismettere, compromettendo così la possibilità per l'azienda di regolare tenuta delle scritture contabili secondo criteri di tracciabilità delle operazioni e di assolvimento delle normative speciali anche in materia di smaltimento e rottamazione dei materiali. Quello che a una verifica superficiale potrebbe anche apparire come un inadempimento di natura meramente formale, viene invece riconosciuto integrare la giusta causa di recesso sia perché, oggettivamente, ha compromesso la possibilità per il datore di adempiere agli oneri su di sé gravanti, sia perché, soggettivamente, il ricorrente era stato più volte sollecitato a provvedere in merito e quindi le mancanze di cui è stato incolpato facevano venir meno la fiducia nel futuro adempimento delle proprie obbligazioni.


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