È illegittimo il licenziamento intimato per soppressione del posto di lavoro, se la cancellazione del ruolo aziendale è destinata a prodursi solo in un secondo tempo per effetto di una programmata fusione societaria.
La Cassazione afferma (sentenza 3186/2019) che le ragioni invocate dal datore di lavoro a presidio di un licenziamento per esigenze aziendali devono sussistere nel momento stesso in cui viene intimato il recesso, risultando viceversa invalido il licenziamento che si fondi su una riorganizzazione aziendale che non abbia ancora prodotto i propri effetti nella compagine aziendale.
Il caso sul quale è stata chiamata a pronunciarsi la Suprema corte è relativo a un’addetta all’elaborazione delle paghe, disposto da una società sul presupposto del trasferimento dei relativi compiti presso una seconda azienda appartenente al medesimo gruppo, in vista della successiva fusione per incorporazione che si sarebbe realizzata nelle settimane successive tra le due entità giuridiche.
Mentre, in primo grado, il tribunale ha confermato la validità del licenziamento, la Corte d’appello di Roma ha ribaltato la decisione, affermando che il provvedimento del datore di lavoro si poneva in contrasto con la regola, fissata nel comma 4 dell’articolo 2112 del codice civile, per la quale il trasferimento d’azienda (nel cui alveo rientra la fusione per incorporazione) non può costituire di per sé valida ragione di recesso.
Ad avviso della Corte d’appello, la circostanza che il licenziamento fosse intervenuto nell’ambito di una riorganizzazione che, di lì a poche settimane, avrebbe portato alla fusione della società che aveva licenziato la dipendente con la società a cui le relative mansioni erano state trasferite costituiva violazione dell’articolo 2112, comma 4, del codice civile.
Su tale presupposto la Corte d’appello ha disposto la reintegrazione della lavoratrice e il pagamento delle retribuzioni mensili nella misura maggiore prevista dall’articolo 18, comma 1, della legge 300/1970, in presenza di licenziamento discriminatorio o riconducibile ad altri casi di nullità previsti dalla legge.
La Corte di cassazione conferma l’illegittimità del licenziamento, ma riforma la sentenza resa in appello per avere erroneamente fatto applicazione del regime sanzionatorio più severo previsto dal primo comma dell’articolo 18. Osserva la Cassazione, a questo proposito, che la regola per cui il trasferimento d’azienda non può costituire, di per sé, giustificato motivo di licenziamento non introduce un divieto sanzionato con la nullità, ma integra gli estremi di un’ipotesi di annullamento per difetto di giustificato motivo.
Ne discende l’annullamento del recesso e il diritto della lavoratrice alla reintegrazione, ma con un’indennità risarcitoria limitata a un importo massimo di 12 mensilità, così come previsto dall’articolo 18, comma 4, dello statuto dei lavoratori.