In caso di reintegra, le sanzioni per omissione contributiva possono essere applicate esclusivamente ai licenziamenti dichiarati inefficaci o nulli. Nessuna sanzione, invece, laddove la ricostituzione de jure del rapporto derivi da un vizio di annullabilità del licenziamento, ovvero dall'assenza di giusta causa o di giustificato motivo.
Tale principio è stato recentemente ribadito dall'ordinanza n. 2019/19 della Corte di cassazione con riguardo ad un licenziamento intimato prima dell'entrata in vigore della legge 92/12, al quale risultava applicabile, ratione temporis, l'articolo 18 della legge 300/70 nel testo precedente la riforma.
Nel caso di specie, l'azienda datrice di lavoro si è vista notificare una cartella esattoriale contenente l'intimazione di pagamento degli interessi di mora e delle sanzioni civili per omessa contribuzione, in relazione al ritardato versamento dei contributi afferenti al periodo compreso tra il licenziamento del proprio dipendente e la sua reintegra in servizio per ordine giudiziale.
Nell'opporsi a tale cartella, il datore di lavoro ha rilevato come l'obbligazione contributiva fosse venuta meno con la cessazione del rapporto di lavoro e non potesse che risorgere all'atto del ripristino dello stesso, stante, da un lato, l'oggettiva impossibilità di provvedere al versamento dei contributi nel periodo antecedente al licenziamento - nel quale il rapporto di lavoro doveva ritenersi definitivamente cessato - dall'altro, la non retroattività degli effetti della sentenza che aveva annullato il licenziamento.
La Corte di legittimità ha ritenuto il ricorso fondato, mostrando di voler dare continuità all'orientamento già fatto proprio dalle Sezioni Unite (sentenza n. 19665/14), secondo cui in tema di reintegrazione del lavoratore per illegittimità del licenziamento “occorre distinguere, ai fini delle sanzioni previdenziali, tra la nullità o inefficacia del licenziamento, che è oggetto di una sentenza dichiarativa, e l'annullabilità del licenziamento privo di giusta causa o giustificato motivo, che è oggetto di una sentenza costitutiva”.
Solo nel primo caso, infatti, il rapporto previdenziale deve considerarsi come mai interrotto, verificandosi così una vera e propria omissione contributiva che da luogo all'applicazione delle correlate sanzioni civili, ferma restando la non configurabilità della più grave fattispecie dell'evasione contributiva (per la quale difetta il requisito della “intenzione specifica di non versare i contributi”, avendo pur sempre il datore di lavoro confidato nella validità del licenziamento poi rivelatosi inefficace o nullo).
Diversamente, in presenza di un mero vizio di annullabilità del licenziamento, l'obbligo contributivo inerente alla posizione previdenziale illegittimamente interrotta viene ripristinato ex tunc, e cioè a decorrere dall'effettiva reintegra del lavoratore, con la conseguenza che risultano esclusivamente dovuti, oltre ai contributi non versati, i soli interessi nella misura legale per ritardato pagamento.
Va peraltro rilevato come la predetta distinzione tra inefficacia o nullità del recesso datoriale, da un lato, e annullabilità del licenziamento perché intimato in assenza di giusta causa o di giustificato motivo, dall'altro, sia stata mantenuta ed esplicitata anche nella vigente formulazione dell'articolo 18 introdotta dalla legge 92/12, anche per quanto attiene alle sanzioni previdenziali.
L'attuale testo dell'articolo 18 dispone infatti espressamente, al comma 4, che in caso di sentenza di annullamento del licenziamento il datore di lavoro sia condannato alla ricostituzione della posizione previdenziale del dipendente “senza applicazione di sanzioni per omessa o ritardata contribuzione”. Al contrario, nulla prevedendosi al comma 2 circa l'inapplicabilità di tali sanzioni nelle ipotesi di nullità o inefficacia del licenziamento, se ne ricava che, in tali casi, la sentenza di condanna comporterà, oltre all'obbligo di ripristinare il rapporto previdenziale, anche l'irrogazione delle correlate sanzioni civili per la fattispecie dell'omissione contributiva.