La norma interpretativa introdotta dall’articolo 1, comma 72, L. 145/2018, in tema di credito d’imposta per le attività di ricerca e sviluppo, relativamente alla spettanza del beneficio in caso di ricerca commissionata da una committente estera a una società commissionaria italiana, in genere all’interno di uno stesso gruppo, necessita di chiarimenti da parte del Mise e dell’Agenzia delle entrate. La norma interpretativa chiarisce che il comma 1-bis, articolo 3, D.L. 145/2013, concernente il riconoscimento del credito d’imposta per spese di ricerca e sviluppo ai soggetti residenti commissionari che eseguono attività di ricerca e sviluppo per conto di imprese residenti o localizzate in UE, See ovvero in Stati compresi nell’elenco di cui al D.M. 4 settembre 1996 (“controparti estere qualificate”), si interpreta nel senso che ai fini del calcolo dell’agevolazione assumono rilevanza esclusivamente le spese ammissibili relative alle attività svolte direttamente e in laboratori o strutture situati nel territorio dello Stato. La ratio dell’intervento è evidente e condivisibile: si intendono penalizzare le delocalizzazioni di attività dall’estero all’Italia solo apparenti, ossia prive di sostanza economica, e si intende riconoscere l’agevolazione, che è a carico dell’Erario italiano, solo ad attività che siano svolte e abbiano una ricaduta sul territorio dello Stato. In tal senso la norma potrebbe essere così interpretata: il commissionario italiano deve avere personale, locali e attrezzature in Italia adeguati a svolgere e coordinare il progetto di ricerca; qualora il commissionario si avvalga anche dell’attività di sub commissionari, sia terzi sia infragruppo, l’agevolazione può spettare pure su questa parte di costi qualora tali soggetti svolgano la loro attività “in laboratori o strutture situati nel territorio dello Stato”.