Può il lavoratore licenziato, che abbia prestato la propria attività per due datori di lavoro contemporaneamente, ottenere una tutela in sede giudiziaria contro entrambi?
Con la sentenza 3899 dell’11 febbraio 2019, la Cassazione è intervenuta su un aspetto decisamente peculiare in materia giuslavoristica, ossia l’ipotesi della co-datorialità e dell’unicità del rapporto di lavoro.
A prescindere dalla instaurazione formale di tale rapporto – che, nella normalità dei casi, ha luogo nei confronti di un’unica parte datoriale – può accadere che, in via di fatto, il dipendente sia messo in condizioni di rispondere anche alle direttive di un altro soggetto e, quindi, prestare la stessa attività in favore di un secondo titolare. Il tema assume un rilievo peculiare per le eventuali conseguenze di una pronuncia di illegittimità del provvedimento espulsivo e, nello specifico, risulta necessario individuare quale dei due datori sia chiamato a dar luogo all’eventuale reintegrazione o riconoscimento dell’indennità risarcitoria.
Ebbene, stando a quanto affermato dai giudici nella sentenza citata, anche qualora più imprese non abbiano formalmente costituito un gruppo societario e, quindi, non si registri la presenza di «un’unica struttura organizzativa e produttiva» e di un’effettiva «integrazione delle attività esercitate» che sottoponga il dipendente a un’opera di coordinamento della propria prestazione lavorativa «in modo indifferenziato, in favore delle imprese del gruppo» (in questo senso, si vedano anche le sentenze della Cassazione 13809 del 2017 e 26346 del 2016), è ravvisabile un regime di co-datorialità e di unicità del rapporto di lavoro risultante dalla mera circostanza che il lavoratore stesso «presti contemporaneamente servizio per due datori di lavoro e la sua opera sia tale che in essa non possa distinguersi quale parte sia svolta nell’interesse di un datore di lavoro e quale nell’interesse dell’altro».
A prescindere dal fatto che soltanto una delle due figure sia formalmente parte del contratto di lavoro, occorre considerare come l’ordinamento giuridico abbia abbracciato, in ambito lavoristico, una concezione “realistica” di impresa e di datore, cosicché – al netto della veste formale – quando un soggetto «effettivamente utilizza la prestazione di lavoro ed è titolare dell’organizzazione produttiva in cui la prestazione stessa è destinata ad inserirsi», questi è indubbiamente un datore di lavoro (si veda la sentenza della Cassazione 3899/2019).
A ciò consegue che la totalità dei titolari sia chiamata a rispondere in maniera solidale di tutte le obbligazioni che scaturiscono dal rapporto (siano esse connesse o conseguenti) e, quindi, in caso di accertata illegittimità del recesso nelle ipotesi di tutela reale, l’obbligo di reintegrare il lavoratore coinvolge entrambi i datori, come concretamente avvenuto nel caso oggetto di pronuncia. È infatti prescritto in linea generale dall’ordinamento che i condebitori di un’obbligazione siano tenuti in solido, a meno che dalla legge o dal titolo non risulti diversamente (articolo 1294 del Codice civile).