La causa n. C-274/18 riguarda una lavoratrice è stata impiegata come ricercatrice presso una Università, dal 9 settembre 2002 al 30 aprile 2014, in forza di un serie di contratti a tempo determinato successivi, sia a tempo pieno sia a tempo parziale. Il diritto austriaco, prevede che una successione di contratti a tempo determinato successivi sia autorizzata, per i lavoratori e le lavoratrici impiegati dalla MUW, segnatamente nel contesto di progetti finanziati con risorse esterne o di progetti di ricerca e per il personale destinato esclusivamente all’insegnamento. La durata complessiva di questi contratti di lavoro consecutivi a tempo determinato non può eccedere 6 anni, o 8 anni nel caso di attività a tempo parziale. Oltre questa durata, è concessa, se sussiste una giustificazione obiettiva, in particolare ai fini della continuazione oppure della conclusione di progetti di ricerca e di pubblicazioni in corso, una proroga unica per una durata massima di 10 anni per i lavoratori a tempo pieno, e di 12 anni nell’ipotesi di attività a tempo parziale.
La Corte di Giustizia UE è stata chiamata nella causa n. C-274/18 per fornire chiarimenti in merito alla domanda della lavoratrice intesa alla constatazione della continuazione, a tempo indeterminato, del suo rapporto di lavoro.
La Corte di Giustizia UE, nella sentenza del 3 ottobre 2019, sottolinea che per quanto attiene alle condizioni di impiego, i lavoratori a tempo parziale non sono trattati in modo meno favorevole rispetto ai lavoratori a tempo pieno comparabili per il solo motivo che lavorano a tempo parziale, a meno che un trattamento differente sia giustificato da ragioni obiettive. La circostanza che i lavoratori a tempo determinato a tempo parziale possano lavorare, per una università, durante un periodo più lungo dei lavoratori a tempo determinato a tempo pieno costituisce un vantaggio per i primi, alla luce, segnatamente, della difficoltà, per il personale interessato da detta normativa, di accedere a un contratto a tempo indeterminato nell’ambito delle università. Tuttavia una siffatta circostanza sembra essere tale da ridurre o rimandare nel tempo, in misura maggiore per i lavoratori a tempo parziale che per i lavoratori a tempo pieno, la possibilità di accedere a un contratto a tempo indeterminato, il che, eventualmente, e con riserva di una verifica da parte del giudice del rinvio, costituirebbe un trattamento meno favorevole di questa prima categoria di lavoratori.
C’è da aggiungere che il livello di conoscenze e di esperienza che i lavoratori a tempo parziale possono acquisire nell’ambito delle loro relazioni di lavoro è necessariamente inferiore a quello che acquisiscono i lavoratori a tempo pieno comparabili. In tal senso, se queste due categorie di lavoratori fossero assoggettate alla stessa durata massima dei rapporti di lavoro a tempo determinato, i lavoratori a tempo parziale sarebbero particolarmente svantaggiati, dato che disporrebbero di meno tempo per effettuare ricerche e realizzare pubblicazioni scientifiche, mentre si tratta di elementi primordiali per riuscire a installarsi in ambito universitario.
Alla luce di tali considerazioni la Corte di Giustizia Ue dichiara dunque che è contraria alla normativa europea la normativa nazionale che fissa, per i lavoratori a tempo determinato una durata massima dei rapporti di lavoro superiore per i lavoratori a tempo parziale rispetto ai lavoratori a tempo pieno comparabili, a meno che una tale differenza di trattamento sia giustificata da ragioni oggettive e sia proporzionata rispetto a dette ragioni, circostanza che spetta al giudice del rinvio verificare. Inoltre la clausola 4, punto 2, dell’accordo quadro sul lavoro a tempo parziale va interpretata nel senso che il principio del prorata temporis ivi considerato non si applica a detta normativa.
E’ altresì contraria alla normativa europea, una normativa nazionale che fissa, per i lavoratori a tempo determinato, una durata massima dei rapporti di lavoro superiore per i lavoratori a tempo parziale rispetto ai lavoratori a tempo pieno comparabili, se risulta dimostrato che tale normativa incide negativamente su una percentuale significativamente più elevata di lavoratori di sesso femminile che di sesso maschile e se detta normativa non è oggettivamente giustificata da una finalità legittima o se i mezzi impiegati per il suo conseguimento non sono appropriati e necessari.