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Collaboratori a piccole dosi e da gestire con attenzione

Pubblicato il 19 febbraio 2020 Il Sole 24 Ore; Italia Oggi;

È sempre più difficile per le imprese stipulare validi contratti di collaborazione autonoma che sfuggano all’applicazione della disciplina del lavoro subordinato. Il decreto legge 101/2019 e la successiva sentenza 1663/2020 della Cassazione hanno reso evidente come le collaborazioni siano ormai un terreno minato, sul quale è rischioso avventurarsi, salvo in casi molto particolari.

Il Dl 101/2019 è intervenuto sull’articolo 2 del decreto legislativo 81/2015, che dispone l’applicazione della disciplina del lavoro subordinato alle collaborazioni etero-organizzate, con il dichiarato intento di ampliarne il campo di applicazione (per le modifiche introdotte si veda la scheda).

A questo punto poco importa se queste collaborazioni si qualifichino come autonome o subordinate, quel che conta è che si applica la disciplina del lavoro subordinato. Sorgono però al riguardo due interrogativi, entrambi densi di implicazioni pratiche.

Il primo: come distinguere il semplice coordinamento dell’attività del collaboratore, compatibile con una autonomia non “equiparata” al lavoro subordinato, dall’etero-organizzazione, che invece conduce a tale equiparazione?

Su questo punto la sentenza 1663/2020 della Cassazione offre spunti interessanti. La Corte individua nel potere unilaterale di imposizione delle modalità di coordinamento il tratto distintivo dell’etero-organizzazione. Il coordinamento in sé, quindi, inteso come collegamento funzionale con l’organizzazione dell’impresa per l’espletamento della prestazione lavorativa, non è decisivo per l’accesso alle tutele del lavoro subordinato. Lo diventa quando le modalità sono imposte dal committente, sconfinando così nella etero-organizzazione.

Il ragionamento della Corte sul punto poggia sul nuovo testo dell’articolo 409, terzo comma, del codice di procedura civile che offre una definizione di coordinamento basata sul consenso delle parti («la collaborazione si intende coordinata quando, nel rispetto delle modalità di coordinamento stabilite di comune accordo dalle parti, il collaboratore organizza autonomamente l’attività lavorativa»).

Detto questo, nella pratica sarà tutt’altro che semplice operare la distinzione tra coordinamento ed etero-organizzazione, anche perché l’indagine volta a distinguere il potere unilaterale dal coordinamento consensuale dovrà investire tanto la fase genetica del rapporto (e quindi il contratto) quanto la fase funzionale di esecuzione del medesimo. E quindi non basterà redigere con cura il contratto, ma occorrerà essere pronti a dimostrare la consensualità di ogni momento di contatto tra il collaboratore e l’impresa.

La seconda questione riguarda l’ampiezza delle tutele da riconoscere al collaboratore etero-organizzato: tutto l’intero set del lavoratore subordinato o solo una parte di esso?

Nel caso Foodora, la Corte d’appello di Torino, per il vero anche in relazione alle specifiche caratteristiche dei rapporti sottoposti al suo giudizio, aveva fatto un’applicazione selettiva della disciplina della subordinazione, che escludeva ad esempio le norme sul licenziamento.

La Cassazione opina diversamente, prendendo posizione per una estensione generalizzata dell’intera disciplina del lavoro subordinato. La norma, osserva la Corte, non contiene alcun criterio idoneo a selezionare la disciplina applicabile, a differenza di altri casi in cui, in passato, il legislatore aveva utilizzato la tecnica dell’equiparazione precisando quali istituti della disciplina del lavoro subordinato andassero estesi. In questo caso, in mancanza di criteri legislativamente stabiliti, la selezione delle tutele «non potrebbe essere affidata ex post alla variabile interpretazione dei singoli giudici». Senonché, poche righe dopo, la sentenza stessa rileva che «non possono escludersi situazioni in cui l’applicazione integrale della disciplina della subordinazione sia ontologicamente incompatibile con le fattispecie da regolare», che per definizione subordinate non sono.

Va da sé che l’individuazione di tali situazioni di incompatibilità, nel merito delle quali Corte non entra, non potrà che essere demandata al giudice del caso concreto. Con ciò, la questione della selezione o meno del set di tutele, apparentemente uscita dalla porta, rientra dalla finestra. Il rischio di applicazione integrale della normativa (licenziamenti compresi) è comunque elevato, in attesa di una casistica giurisprudenziale sulle incompatibilità “ontologiche”.

Il che, in conclusione, porta a ritenere che oggi, a meno che non si rientri nelle eccezioni previste(professionisti iscritti ad albi, specifici accordi sindacali, amministratori e poco altro), ricorrere a collaborazioni autonome continuative sia piuttosto pericoloso e, tutto sommato, neppure tanto conveniente.


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