I protocolli di contrasto alla diffusione del Covid-19, condivisi tra Governo e parti sociali e assunti oggi, soprattutto dopo il Dl rilancio, al rango di norma cogente, impongono il rispetto della regola del distanziamento sociale nei luoghi di lavoro. Tale regola si sostanzia nella riduzione del numero di presenze in contemporanea nei locali aziendali.
Uno degli strumenti utilizzabili per raggiungere tale obiettivo è, secondo gli stessi protocolli, una diversa articolazione del lavoro attraverso orari differenziati e piani di turnazione. Indicazioni analoghe sono contenute nel documento tecnico Inail per il contenimento del contagio. La differenziazione degli orari, peraltro, oltre a ridurre la contemporaneità delle presenze, può sortire il benefico effetto di prevenire gli assembramenti all’ingresso e all’uscita e di evitare eccessivi e pericolosi affollamenti sui mezzi pubblici nel tragitto casa-lavoro.
Si pone dunque il tema del potere del datore di lavoro di modificare unilateralmente la collocazione dell’orario, come emerso al Welfare e Hr summit svoltosi martedì. La questione è stata spesso discussa in giurisprudenza, con l’esito (consolidato) di ritenere possibile, nel rapporto di lavoro a tempo pieno, la variazione unilaterale della collocazione dell’orario da parte dell’azienda, nell’esercizio dei poteri organizzativi riconosciuti dalla legge.
Per il vero, alcune sentenze, piuttosto risalenti, hanno rilevato che tale potere dovrebbe esercitarsi nel rispetto del generale dovere di correttezza e buona fede, il che potrebbe condurre alla considerazione delle esigenze del dipendente, in un’ottica di bilanciamento di interessi. Considerazioni che, in questo caso, sarebbero però destinate a cedere, posto che la modifica degli orari costituisce addirittura una misura di attuazione dell’obbligo di tutela della salute dei lavoratori (articolo 2087 del Codice civile) e dell’intera collettività.
Per le stesse ragioni, nella fase dell’emergenza, si potrebbe ritenere che la necessità di differenziare gli orari (sostanzialmente imposta da norme cogenti) possa prevalere su eventuali limitazioni al potere datoriale di variazione previste in via generale dal contratto individuale o da accordi collettivi.
La questione si pone diversamente per i lavoratori part time. In questo caso, infatti, l’immodificabilità unilaterale dell’orario e della sua collocazione discende direttamente dalla legge e trova la sua ragione nella disponibilità per il dipendente del tempo residuo, che ben potrebbe essere impiegato per attendere altra occupazione. La variazione andrebbe quindi concordata individualmente con il lavoratore.
Non vanno poi trascurati strumenti come l’orario multiperiodale (articolo 3 del Dlgs 66/2003), che consente, a parità di retribuzione, di calcolare l’orario non per ciascuna settimana ma come media settimanale su un arco di tempo che può arrivare fino a un anno. O ancora la banca ore, prevista da molti contratti collettivi.
Il decreto rilancio, poi, ha introdotto la possibilità, per il 2020, di stipulare, a livello aziendale o territoriale, accordi sindacali di rimodulazione dell’orario di lavoro, con i quali parte dello stesso viene finalizzato a percorsi formativi, e posto a carico di un apposito Fondo costituito presso l’Anpal.
Non si dimentichi, infine, che l’orario di lavoro costituisce una delle materie che possono essere regolate dagli accordi di prossimità (articolo 8 del Dl 138/2011), anche in deroga alle disposizioni della legge e dei contratti collettivi nazionali. Il che potrebbe consentire, ove necessario, la rimozione di eventuali impedimenti alle modifiche degli orari che si rendano necessarie per attuare le misure di sicurezza previste dai protocolli.