Il Tribunale ordinario di Ravenna, in funzione di giudice del lavoro, dubita della legittimità costituzionale dell’art. 18, settimo comma, secondo periodo, della legge 20 maggio 1970, n. 300 (Norme sulla tutela della libertà e dignità dei lavoratori, della libertà sindacale e dell’attività sindacale, nei luoghi di lavoro e norme sul collocamento), nella parte in cui prevede che il giudice, quando accerti la manifesta insussistenza del fatto posto a base del licenziamento per giustificato motivo oggettivo, possa (e non debba) disporre la reintegrazione del lavoratore.
Il rimettente denuncia, anzitutto, il contrasto con l’art. 3 della Costituzione, alla luce del «trattamento irragionevolmente discriminatorio
» che il legislatore avrebbe riservato a «situazioni identiche». La reintegrazione, obbligatoria nel licenziamento per giusta causa nell’ipotesi di insussistenza del fatto, sarebbe meramente facoltativa e sarebbe subordinata a una valutazione in termini di non eccessiva onerosità nella fattispecie del licenziamento per giustificato motivo oggettivo, che peraltro presuppone una insussistenza manifesta del fatto e una iniziativa
del datore di lavoro «del tutto pretestuosa». Dall’insindacabile scelta del datore di lavoro di qualificare il licenziamento come determinato da giusta causa o da giustificato motivo oggettivo deriverebbe «una distinzione estremamente rilevante in punto della tutela del lavoratore». Neppure le diversità che intercorrono tra la giusta causa e il giustificato motivo oggettivo potrebbero spiegare tale distinzione, poiché, nell’ipotesi di insussistenza del fatto, si configura in ogni caso un recesso illegittimo, a prescindere dalle ragioni addotte, attinenti alla giusta causa o al giustificato motivo oggettivo.
Il rimettente osserva che, nel caso in esame, non viene in rilievo il tema della «mancanza di copertura costituzionale per la reintegra», ma l’arbitraria disparità di trattamento tra situazioni identiche negli elementi costitutivi. Una volta che abbia scelto di disporre la tutela reintegratoria al ricorrere di determinati presupposti, il legislatore non potrebbe introdurre «ingiustificati trattamenti differenziati tra situazioni identiche».
La Corte Costituzionale, nella sentenza n. 59/2021 del 1° aprile 2021, evidenzia che nella controversia in esame, la scelta della tutela che spetta al lavoratore illegittimamente licenziato sarebbe demandata all’apprezzamento discrezionale del legislatore. Il riconoscimento della reintegrazione rappresenterebbe «solamente una delle molteplici alternative prospettabili». I dubbi di costituzionalità si concentrano sull’art. 18, settimo comma, secondo periodo, dello statuto dei lavoratori, così come modificato dall’art. 1, comma 42, lettera b), della legge n. 92 del 2012, nel quadro di un ampio intervento riformatore sulle tutele contro i licenziamenti illegittimi. Il legislatore ha inteso ridistribuire «in modo più equo le tutele dell’impiego» anche mediante l’adeguamento della disciplina dei licenziamenti «alle esigenze del mutato contesto di riferimento» e la previsione «di un procedimento giudiziario specifico per accelerare la definizione delle relative controversie».
In riferimento al licenziamento per giustificato motivo oggettivo connesso a ragioni economiche, produttive e organizzative, che rappresenta il fulcro della questione di legittimità costituzionale, il nuovo regime sanzionatorio prescrive di regola la corresponsione di una indennità risarcitoria, compresa tra un minimo di dodici e un massimo di ventiquattro mensilità. Il ripristino del rapporto di lavoro, con un risarcimento fino a un massimo di dodici mensilità, è circoscritto all’ipotesi della manifesta insussistenza del fatto, che postula una evidente assenza dei presupposti di legittimità del recesso e dunque la sua natura pretestuosa.
Il giudice, pertanto, potrà pronunciare la reintegrazione del lavoratore «subordinatamente all’ulteriore valutazione discrezionale rispetto alla non eccessiva onerosità del rimedio» e quindi la disposizione, nel sancire una facoltà discrezionale di concedere o negare la reintegrazione, contrasta con l’art. 3 Cost. Nell’apprestare le garanzie necessarie a tutelare la persona del lavoratore, il legislatore, pur nell’ampio margine di apprezzamento che gli compete, è vincolato al rispetto dei princìpi di eguaglianza e di ragionevolezza. La disposizione censurata entra in conflitto con tali princìpi.
Resta fermo che al giudice si riconosce una discrezionalità che non deve ‘’sconfinare in un sindacato di congruità e di opportunità’’ dunque non può né deve lambire le scelte imprenditoriali. ‘’Il vaglio della genuinità della decisione imprenditoriale garantisce che il licenziamento rappresenti pur sempre una extrema ratio e non il frutto di un insindacabile arbitrio’’. Alla luce di quanto rilevato la Corte Costituzionale dichiara “l’illegittimità costituzionale dell’art. 18, settimo comma, secondo periodo, della legge 20 maggio 1970, n. 300 (Norme sulla tutela della libertà e dignità dei lavoratori, della libertà sindacale e dell’attività sindacale, nei luoghi di lavoro e norme sul collocamento), come modificato dall’art. 1, comma 42, lettera b), della legge 28 giugno 2012, n. 92 (Disposizioni in materia di riforma del mercato del lavoro in una prospettiva di crescita), nella parte in cui prevede che il giudice, quando accerti la manifesta insussistenza del fatto posto a base del licenziamento per giustificato motivo oggettivo, «può altresì applicare», invece che «applica altresì», la disciplina di cui al medesimo art.18, quarto comma”.