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Le ritenute fiscali non dovute non possono essere richieste ai dipendenti

Pubblicato il 24 maggio 2021 Il Sole 24 Ore; Italia Oggi;

Con due ordinanze depositate qualche giorno fa (sezione lavoro, 17 maggio 2021, n. 13186 e n. 13187), la Corte di cassazione ha chiarito che il datore di lavoro non può pretendere dal proprio dipendente le ritenute fiscali che non sono state versate direttamente ai lavoratori e ciò per una ragione abbastanza semplice: questi non le ha mai percepite.
In tal modo, i giudici hanno rigettato le pretese di una nota società per azioni italiana che, invece, aveva provato a far valere la circostanza che, essendo il sostituto di imposta definito dalla legge come colui che "è obbligato al pagamento d'imposte in luogo di altri…ed anche a titolo d'acconto", tale circostanza presupporrebbe che anche il lavoratore-sostituito sia, sin dall'origine e non solo a partire dalla fase di riscossione, un obbligato solidale di imposta, soggetto al potere di accertamento e a tutti i relativi oneri.
La Corte di cassazione, nel "rinnegare" tale ricostruzione, non ha fatto altro che conformarsi al diverso principio, ormai consolidato nella giurisprudenza di legittimità, in forza del quale, se certe somme al lordo delle ritenute fiscali non sono mai entrate nella sfera patrimoniale del lavoratore, il datore di lavoro non può pretenderle interamente da quest'ultimo.Per comprendere meglio il ragionamento basti considerare che, nel caso di specie, le impugnazioni davanti ai giudici di legittimità avevano a oggetto due sentenze della Corte d'appello di Firenze e della Corte d'appello di Ancona con le quali, con diverse modalità, erano state di fatto confermate le decisioni, rispettivamente, del Tribunale di Lucca e del Tribunale di Pesaro di revocare i decreti ingiuntivi emessi in favore di un datore di lavoro a titolo di restituzione di somme corrisposte in esecuzione di pronunce poi riformate dalla corti di merito, con le quali era stata disposta in favore dei lavoratori la conversione dei contratti di lavoro a termine in contratti a tempo indeterminato.
I lavoratori erano stati invece condannati a restituire le somme non per intero, ma al netto delle ritenute fiscali, previdenziali e assistenziali. Insomma: le somme effettivamente riscosse. Nel confermare le pronunce delle Corti d'appello, la Cassazione ha fatto leva anche sull'articolo 38 del D.P.R. n. 602/1973, come modificato dal d.lgs. n. 143/2005, il quale prevede che il soggetto che ha effettuato il versamento diretto può presentare istanza di rimborso all'intendente di finanza competente entro quarantotto mesi dalla data del versamento, in caso di errore materiale, duplicazione e inesistenza totale o parziale dell'obbligo di versamento, e che tale istanza può essere presentata anche dal percipiente delle somme assoggettate a ritenuta. Del resto, come si legge nelle due pronunce, "l'azione di restituzione e riduzione in pristino, proposta a seguito della riforma o cassazione della sentenza contenente il titolo del pagamento, si collega ad una esigenza di restaurazione della situazione patrimoniale anteriore a detta sentenza e, dunque, a prestazioni eseguite e ricevute nella comune consapevolezza della rescindibilità del titolo e della provvisorietà dei suoi effetti".

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