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Cinque risoluzioni consensuali non sono licenziamento collettivo

Pubblicato il 09 giugno 2021 Il Sole 24 Ore; Italia Oggi;

La Cassazione è tornata sul calcolo del requisito numerico che, in presenza di più di quattro licenziamenti in un arco temporale di 120 giorni, determina, per le imprese con più di 15 dipendenti nella medesima unità produttiva, l'obbligo di attivazione della procedura collettiva di riduzione del personale.
Meno di un anno fa (sentenza 15401/2020) la Cassazione aveva affermato che nel conteggio devono rientrare, oltre ai licenziamenti espressamente motivati con una esigenza di riorganizzazione aziendale o produttiva, i recessi dal rapporto che, quand'anche riconducibili a una scelta del lavoratore, siano stati influenzati da una modifica sostanziale delle condizioni di lavoro. In forza di questo principio, la Corte ha ritenuto che nel calcolo dei 5 licenziamenti, da cui deriva l'obbligo della procedura di informazione e consultazione sindacale secondo la legge 223/1991, rientra la risoluzione consensuale cui le parti sono addivenute a seguito della mancata accettazione di un trasferimento.
L'approdo cui è pervenuta la Suprema corte si poneva in continuità con un indirizzo espresso dalla Corte di giustizia dell'Unione europea, secondo cui nel numero dei recessi, oltre il quale si ricade nella sfera dei licenziamenti collettivi, vanno comprese le dimissioni e le risoluzioni consensuali provocate da una modifica datoriale di essenziali elementi del rapporto di lavoro.
La pronuncia ha avuto vasta risonanza, perché ha rovesciato un consolidato indirizzo, che si è imposto per quasi vent'anni, secondo cui nella nozione dei licenziamenti collettivi rientrano solo i recessi datoriali tecnicamente intesi, con esclusione di ogni altra ipotesi di cessazione del rapporto di lavoro, anche se la scelta delle dimissioni o della risoluzione si colloca in un più ampio contesto di riduzione del personale.
Sono passati pochi mesi e dobbiamo registrare un nuovo radicale intervento. La Cassazione ha cambiato (ancora) idea, affermando (sentenza 15118/2021) che non rientrano nel calcolo dei 5 dipendenti neppure i recessi conclusi nell'ambito delle procedure di licenziamento individuale per motivo oggettivo. L'articolo 7 della legge 604/1966 prevede per i vecchi assunti (quelli prima del Jobs act) che, se il datore intende procedere a un licenziamento economico, deve prima attivare un tentativo di conciliazione presso l'Ispettorato territoriale del lavoro.
Ad avviso della Corte, «l'intenzione di procedere al licenziamento» non equivale a un atto di licenziamento. Pertanto, se la procedura individuale si conclude con accordo tra le parti, dove il dipendente sostanzialmente accetta il licenziamento e, a fronte di un incentivo all'esodo, formalizza la risoluzione consensuale con accesso alla Naspi, siamo fuori dal contesto dei licenziamenti collettivi.Con questa decisione la Corte non cancella solo il più recente approdo cui era pervenuta nei mesi scorsi, ma si pone in discontinuità con la posizione del ministero del Lavoro per cui, se vengono attivate più di 4 istanze di conciliazione secondo l'articolo 7, la procedura non è ammissibile.
Il senso di incertezza che promana da questi continui cambiamenti di prospettiva non mancherà di far sentire i suoi effetti nelle prossime settimane, quando il superamento della moratoria sui licenziamenti economici darà il via a una nuova stagione di esuberi.

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