I benefici fiscali per i lavoratori impatriati sono accessibili anche a chi trasferisce la propria residenza in Italia lavorando in smart working per conto di una società straniera.
La risposta a interpello 596/2021 pubblicata ieri dall’agenzia delle Entrate riporta il quesito posto da un cittadino italiano che vive all’estero dal 2013. Lo stesso, dopo avere lavorato per una società fino al 2016, ha cambiato datore di lavoro, accettando un nuovo rapporto d’impiego con un’azienda americana. Nel quesito posto all’Agenzia, l’istante ha specificato di essersi cancellato dall’anagrafe del proprio Comune iscrivendosi dal 2019 all’Aire.
Il lavoratore riferisce di avere condiviso con il proprio datore di lavoro l’intenzione di trasferirsi in Italia insieme alla propria famiglia continuando a lavorare in smart working dal territorio italiano per la stessa società estera di cui è dipendente dal 2016. È stato quindi richiesto all’amministrazione finanziaria se, lavorando in remoto dall’Italia trasferendovi la propria residenza fiscale, avrà comunque diritto a godere dell’agevolazione fiscale per lavoratori impatriati prevista dall’articolo 16, comma 1, del decreto legislativo 147/2015, specificando anche di avere nel proprio nucleo familiare una figlia minorenne.
Nella risposta fornita, l’amministrazione finanziaria ha ricordato le due modalità alternative di accesso all’agevolazione per impatriati a oggi vigenti dopo l’intervento del legislatore con il decreto crescita. In particolare, l’Agenzia si è concentrata sui requisiti richiesti dal comma 1 dell’articolo 16 che, a differenza del comma 2, non richiede né titoli di studio né periodi minimi di lavoro o studio all’estero, ma solo 3 condizioni: il trasferimento della residenza fiscale nel territorio dello stato italiano, un periodo di residenza estera anteriore al trasferimento in Italia nonché lo svolgimento dell’attività lavorativa per più metà dell’anno nel territorio italiano.
L’Agenzia ha poi ricordato che il lavoratore dovrà anche mantenere la residenza fiscale in Italia per almeno 2 anni, pena la decadenza dei benefici fruiti e l’applicazione di sanzioni e interessi. Il lavoratore ha a tal fine fornito alle Entrate documentazione sull’accordo di lavoro in remoto dall’Italia per un periodo iniziale di almeno due anni.
L’interpello ha specificato un punto di notevole interesse per tutti i potenziali lavoratori dipendenti e autonomi che valutassero di trasferirsi a lavorare in Italia in smart working col beneficio fiscale dell’articolo 16 del Dlgs 147/2015. In conseguenza delle modifiche apportate a quest’ultimo dall’articolo 5, comma 1, del Dl 34/2019, non è più richiesto, per chi si trasferisce in Italia, che l’attività lavorativa venga svolta solo a favore di imprese operanti sul territorio italiano, consentendo che il bonus fiscale, in presenza degli altri requisiti, spetti anche ai dipendenti dei datori di lavoro con sede all’estero o anche a lavoratori autonomi o imprenditori i cui committenti siano stranieri. La portata di queste indicazioni, già in parte contenute nella circolare 17/E del 2017 delle Entrate, assume una rilevanza ancora più strategica alla luce dello scenario pandemico e post pandemia.
L'Agenzia ha inoltre confermato che, data la presenza nel nucleo familiare del richiedente di un figlio minore, l’agevolazione potrà avere una durata massima di 10 anni di cui i primi 5 con riduzione dell’imponibile fiscale al 70% e i restanti 5 con abbattimento al 50% secondo la previsione dell’articolo 16, comma 3-bis del Dlgs 147/2015 nella sua attuale versione.