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Licenziamenti collettivi, come limitarli a una sola unità produttiva

Pubblicato il 27 gennaio 2022 Il Sole 24 Ore; Italia Oggi;

Il datore di lavoro che, nel procedere a un licenziamento collettivo, intenda individuare i dipendenti da licenziare esclusivamente tra quelli appartenenti a un determinato settore, si muove in un campo che richiede delle particolari cautele, sulle quali la Corte di cassazione è di recente tornata con quattro pronunce (1379/2022 , 1380/2022, 1381/2022, 1382/2022).
Con un'approfondita motivazione, i giudici hanno precisato, tra le altre cose, che la limitazione dei dipendenti da licenziare, per essere valida, presuppone che il datore di lavoro, nella comunicazione prevista dall'articolo 4, comma 3, della legge 223/1991, indichi sia le ragioni in base alle quali i licenziamenti sono circoscritti ai dipendenti di una certa unità o di un determinato settore, sia le motivazioni per cui non ritenga di ovviare alla risoluzione dei rapporti con il trasferimento a unità produttive vicine.
La regola generale in forza della quale i lavoratori da licenziare devono essere individuati avuto riguardo al complesso aziendale, infatti, di per sé non impedisce di limitare la platea degli interessati agli addetti a un determinato settore o reparto o a una certa sede territoriale, ma a tal fine impone, innanzitutto, la sussistenza di esigenze tecnico-produttive oggettive e, inoltre, che queste ultime siano coerenti con quanto previsto dall’articolo 4, comma 3. È inoltre il datore di lavoro a dover dare prova del fatto che giustifica l'effettuazione della scelta entro i confini di un ambito più ristretto.
La specificazione all'interno della comunicazione richiesta dall'articolo 4 è finalizzata a far sì che le organizzazioni sindacali siano in grado di verificare che tra le ragioni che determinano l'esubero di personale e le unità lavorative da espellere sussista un adeguato nesso di causalità e che la delimitazione della platea dei lavoratori cui è destinato il provvedimento di mobilità o di licenziamento sia il frutto non di una scelta unilaterale del datore di lavoro, ma delle effettive esigenze organizzative alla base della riduzione del personale, adeguatamente esposte nella comunicazione medesima e rispetto alle quali deve esserci piena coerenza.
La Cassazione ha altresì specificato che, nella scelta dei soggetti da coinvolgere in un licenziamento collettivo, ai fini dell'esclusione della comparazione con i lavoratori di professionalità equivalente, ma che sono addetti a unità produttive non soppresse e dislocate sul territorio nazionale, non assume alcun rilievo la circostanza che per mantenere in servizio un lavoratore della sede soppressa occorrerebbe trasferirlo presso un'altra sede, con l'aggravio di costi che ne consegue per l'impresa.
A tale proposito occorre infatti considerare che l'articolo 5 della legge 223/1991, nel dettare i parametri per l'individuazione dei lavoratori da licenziare, non fa riferimento alla sopravvenienza di costi aggiuntivi né alla dislocazione territoriale delle sedi. Del resto, tenendo conto della regola generale in forza della quale la ristrutturazione delle imprese deve avere il minor impatto sociale possibile, non è corretto escludere a priori che il dipendente interessato del provvedimento di trasferimento conseguente al riassetto delle posizioni lavorative preferisca essere diversamente dislocato piuttosto che perdere il proprio posto di lavoro.

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