Vince la causa il portiere di un istituto religioso della Capitale che per anni ha svolto l’attività di accoglienza di ospiti dietro il pagamento di un corrispettivo. L’uomo con un rapporto di lavoro, che si è protratto dal 1963 al 1998, chiedeva di essere regolarizzato con il contratto per il turismo e non con quello previsto per i collaboratori domestici, reclamando così le conseguenti differenze retributive (Tfr, tredicesima, lavoro straordinario).
La Suprema Corte, con la sentenza n. 17399/11 depositata in data 19 agosto, ha avvalorato le tesi avanzate dal portiere sostenendo che gli istituti e le comunità religiose, che ospitano pellegrini dietro il versamento di un compenso, svolgono attività commerciale e il personale esterno addetto alle varie funzioni deve essere inquadrato con il contratto collettivo di riferimento e non essere inquadrato come collaboratore domestico. Per valere quest’ultima condizione, infatti, è necessario il presupposto di una “convivenza di tipo familiare”. Cosa che mancava nel caso di specie.
Dunque, è possibile che la comunità religiosa svolga oltre alle principali attività di culto anche altre attività – come per esempio quella alberghiera – anche se in via accessoria, ma non sporadica od occasionale. Nel caso di specie, infatti, prevale l’esercizio di un’attività d’impresa, anche se l’istituto religioso poneva a propria difesa l’assenza dello scopo di lucro nel consentire il soggiorno ad ospiti esterni. Per gli ermellini l’attività alberghiera esercitata può essere ricondotta al fine spirituale solo se svolta in modo completamente gratuito. In caso contrario, al personale esterno addetto allo svolgimento delle varie mansioni dietro pagamento di un corrispettivo si deve applicare il contratto collettivo nazionale.
weekly news 33/2011