Tanti dettagli, ma generici, comportano la violazione degli obblighi di tenuta della contabilità. Il “compito” delle fatture, infatti, è identificare in maniera esatta e precisa l’oggetto della prestazione, specificandone natura, qualità e quantità, così da consentire al Fisco lo svolgimento delle attività di controllo (Cassazione, 21980/2015).
L’oggetto del contendere riguarda la corretta interpretazione dell’articolo 21, comma 2, lettera b) – oggi lettera g) – del D.P.R. 633/1972, secondo cui, tra l’altro, le fatture emesse devono indicare la “natura, qualità e quantità dei beni e dei servizi formanti oggetto dell’operazione”.
Nel caso di specie, la società aveva emesso una serie di fatture nei confronti di un cliente, indicando nell’oggetto “servizi professionali, magazzinaggio, trasporto, tenuta contabile, marketing e promozione vendite”.
A parere degli organi verificatori, data l’estrema genericità delle indicazioni che vi figuravano, detti documenti dovevano essere considerati irregolari, perché emessi in violazione dell’articolo 21 citato e, da qui, l’irrogazione delle sanzioni per irregolare compilazione delle fatture previste dall’articolo 9 del D.Lgs 471/1997.
La Cassazione ha ritenuto fondato il motivo di ricorso, avendo errato in diritto i giudici della Ctr quando, una volta riscontrata la genericità e l’ampiezza del contenuto delle fatture, non hanno riconosciuto la violazione delle disposizioni di legge e, invece, hanno dichiarato illegittime le sanzioni irrogate dall’Agenzia delle Entrate.
A parere della Corte suprema, le prescrizioni previste dall’articolo 21 della legge sull’Iva in merito alla esatta e precisa individuazione dell’oggetto delle prestazioni “rispondono ad oggettiva finalità di trasparenza e di conoscibilità essendo funzionali a consentire l’espletamento delle attività di controllo e verifica da parte dell’Amministrazione finanziaria”.