In tema di procedimento fallimentare, spetta sempre a chi si qualifica piccolo imprenditore dimostrare il mancato superamento dei limiti per la fallibilità. La natura officiosa del procedimento fallimentare non elimina la necessità che sia la parte a fornire elementi di prova sul mancato superamento dei limiti dimensionali: il giudice non può, infatti, trasformarsi in organo ufficioso di ricerca della prova. È quanto emerge dalla sentenza 15 gennaio 2016, n. 625, della Prima Sezione Civile della Corte di Cassazione. (Nel respingere il ricorso prodotto da un imprenditore, avverso la sentenza dichiarativa di fallimento, gli ermellini osservano che, sebbene l’onere della prova del mancato superamento dei limiti di cui all’art. 1, R.D. 267/42, come novellato dal D.Lgs. 5/06, applicabile ratione temporis, sia stato posto espressamente a carico dell’imprenditore solo con il successivo D.Lgs. 169/07, con effetto dal 1° gennaio 2018, a tale emendamento si deve attribuire efficacia interpretativa di un principio implicito nella formula originaria, la quale poneva già come regola generale l’assoggettamento a fallimento degli imprenditori commerciali e come esclusione – cioè come fatto impeditivo, costituente un’eccezione in senso tecnico – la qualità di piccolo imprenditore, legalmente desumibile dal mancato raggiungimento dei presupposti dimensionali fissati dal legislatore).