La Cassazione considera legittimo il licenziamento motivato dal raggiungimento di maggiori utili da parte del datore di lavoro, anziché dall’evitare perdite. Si tratta di un principio affermato dalla Corte con la sentenza n. 23620 del 18 novembre scorso.
Comune a tutti gli orientamenti, sostiene la Corte, è l'affermazione secondo cui il motivo addotto dall'imprenditore deve essere oggettivamente verificabile, ossia non pretestuoso, con onere della prova a carico dell'imprenditore stesso.
Ferma la non sindacabilità delle decisioni imprenditoriali nel merito, l'esercizio del potere organizzativo è tuttavia illegittimo per sviamento, quando il motivo addotto non risulti provato, ciò che avviene per le situazioni potestative di qualsiasi contenuto, pubblico o privato.
Nella maggior parte delle pronunce la Corte di Cassazione ha posto a base del potere di licenziare la necessità di ristrutturazione aziendale e la conseguente soppressione del posto spettante al lavoratore poi licenziato. È frequente la negazione della necessità di ristrutturare l'azienda (e quindi l'affermazione dell'illegittimità del licenziamento) finalizzata non ad evitare perdite economiche, bensì a conseguire un maggior profitto, anche se la negazione sembra talvolta non effettivamente verificata.
Altre volte appare sufficiente la ristrutturazione dell'assetto organizzativo, realizzato con la soppressione di uno o più posti di lavoro, al fine di evitare perdite o di incrementare il profitto.