Un aspetto problematico per le società di persone è valutare le procedura di distribuzione della quota di utili che spetta al socio. Va verificato se il socio abbia un diritto soggettivo a percepirla e, se sì, va valutato se tale diritto sia azionabile anche in contrasto con la diversa, e maggioritaria, volontà degli altri soci. Per le società di persone, l’articolo 2262, cod. civ. afferma il diritto soggettivo a percepire l’utile, condizionandolo solo alla circostanza che il rendiconto sia stato approvato. L’indirizzo della Cassazione al riguardo sembra univoco (sentenze n. 1240/1996 e n. 4454/1995): una volta approvato il rendiconto, il socio matura un diritto soggettivo e automatico a percepire la propria quota dell’utile dell’esercizio, diritto non comprimibile dall’eventuale diversa volontà degli altri soci. In presenza di questo quadro normativo, la procedura contabile che sembra più corretta non è ipotizzare che l’utile d’esercizio entri a far parte del patrimonio netto semplicemente perché conseguito, come accade nella maggior parte dei casi nella prassi operativa, bensì che venga allocato tra le passività cioè debiti verso i soci, proprio in funzione del diritto soggettivo e automatico sopra evidenziato. Per disinnescare le possibili contestazioni (interne alla compagine sociale o esterne da parte dell’agenzia delle Entrate) un suggerimento semplice ed efficace consiste nell’inserire nello statuto sociale una clausola che preveda di attribuire alla decisione maggioritaria dei soci - con forme che dovranno essere esplicate - le scelte relative alla destinazione dell’utile. In assenza di tale clausola statutaria, è certamente opportuno rendere ufficiale, con idonei mezzi probatori, la volontà unanime dei soci di destinare l’utile a riserve: se la percezione dell’utile è un diritto soggettivo del socio, egli potrà certamente rinunziare ad azionarlo facendo constare la propria decisione da elementi documentali inoppugnabili.