Oramai è chiaro. La “convivenza” tra l'articolo 20 dell'imposta di registro e il principio generale del divieto dell'abuso del diritto è fuori controllo, anche per la Cassazione. Si susseguono pronunce di legittimità con affermazioni non univoche o, a volte, a fronte di conclusioni convergenti, le motivazioni addotte sono differenti. Il 10 febbraio scorso è intervenuta la sentenza della Corte n. 3562 che, ai fini del registro, riqualifica in cessione di azienda il conferimento di un'azienda e la successiva cessione di quote. In sintesi, la sentenza afferma che l'articolo 20, Tur non è una norma antielusiva ma è comunque una previsione che consente all'Agenzia delle entrate di riqualificare gli atti in ragione del loro “intrinseco” e del loro collegamento negoziale. Esisterebbe, quindi, un potere degli uffici finanziari di tassare gli atti e il collegamento tra gli stessi prescindendo dalla volontà negoziale, guardando agli effetti “oggettivamente” raggiunti. È un percorso interpretativo seguito, ad esempio, anche nella sentenza della Cassazione n. 9582/2016. In sintesi, possiamo osservare che, nel tempo, sembra superato il filone giurisprudenziale che riqualificava le operazioni in esame basandosi su una supposta funzione antielusiva dell'articolo 20, Tur e si va affermando un diverso filone che si fonda sulla natura interpretativa della medesima previsione che, tuttavia, consentirebbe di valutare gli atti sulla base degli effetti che essi realizzano. Dove gli effetti sarebbero quelli economici finali e non quelli meramente giuridici come invece l'articolo 20 espressamente dispone. Si è creato, cioè, un terzo filone di ragionamento: il primo sostiene che l'articolo 20 deve interpretare gli atti dal punto di vista strettamente civilistico, il secondo “sposa” la tesi della natura antielusiva della previsione e il terzo si colloca nel mezzo valorizzando gli effetti economici (e non giuridici) degli atti e pervenendo, per tale via, alla possibilità di riqualificarli. Il tema si presta ad alcune considerazioni.