Nessun mobbing se divergenze o conflitti col capo non sono intenzionali ma fisiologici: il reato scatta solo se la condotta del datore è volontariamente diretta a danneggiare il lavoratore. Lo sostiene il Tribunale di Udine, con sentenza n. 51 del 17 marzo 2017 .
Apre il caso il ricorso di un neurochirurgo dipendente di un’azienda ospedaliero universitaria. A lui, dedicatosi per anni al trattamento della patologia del distretto cranico, si doveva la nuova metodica custom made e una variante all’approccio chirurgico. Perciò era stato anche proposto come consigliere della Società Neuroscienze Ospedaliere.
Il rapporto col primario, però, incrinatosi per banali critiche, era sfociato – spiega al giudice cui chiede anche il risarcimento da lesione dell’onore e dell’immagine professionale – in una serie di condotte mobbizzanti: studi non finanziati, perdita di responsabilità di reparto e tutorato, incarico in chirurgia tumorale non rinnovato e scheda di valutazione negativa.
Ma l’azienda si difende. Le sue, rileva, erano scelte motivate da opportunità e corretta applicazione delle norme. Del resto, anche i colleghi del chirurgo avevano riferito, non solo della sua scarsa partecipazione alle riunioni, ma anche di toni sprezzanti e modi di fare tali da generare un clima di sfiducia, paura e disarmonia.
Nessun mobbing, quindi, per il Tribunale udinese. Per mobbing, si legge in sentenza, si intende – a prescindere dall’eventualità che, in concreto, si realizzino effetti simili o sovrapponibili a quelli causati da una condotta mobbizzante – solo il comportamento datoriale teso a «procurare un danno al lavoratore». Ove tale finalità non sia stata provata, dunque, si tratterà – come nella vicenda specifica – di semplici «posizioni divergenti o perfino conflittuali, affatto connesse alla fisiologia del rapporto di lavoro», estranee al fenomeno denunciato.
Esso, d’altronde, si realizza in condotte vessatorie, reiterate, individuali o collettive, che, sistematicamente protratte nel tempo e sorrette da volontà di persecuzione, emarginazione o mortificazione della vittima, ne provochino la lesione sotto il profilo professionale, sessuale, morale, psicologico o fisico (Tribunale di Milano, sentenza 451/16). Proposito la cui prova, spettante a chi rivendichi il danno (Tar Calabria, sentenza 84/17), può desumersi anche da presunzioni gravi, precise e concordanti, lette alla luce di un esame globale del caso (Tribunale Pordenone, 156/15).
Nella vicenda, invece, era emersa un’irreversibile conflittualità tra il ricorrente, il primario, i medici del reparto e gli specializzandi, attribuibile, secondo i testimoni, ad aspetti caratteriali, comportamenti ed esternazioni dello stesso neurochirugo. Situazione seria, che aveva necessitato l’intervento della direzione sanitaria, certamente non diretto a danneggiarlo, ma solo a prevenire il pericolo di pregiudizi per la funzionalità e la concreta operatività della struttura.
Problematiche rilevanti in termini di incompatibilità ambientale che, pertanto, ben giustificavano, conclude il Tribunale, sia il provvedimento di trasferimento che l’assegnazione ad un’altra unità. Respinte, così, le domande, di condanna e di risarcimento dei danni, promosse dal medico.